Per mettere insieme frammenti di storia del socialismo napoletano, ho incontrato anche numerosi compagni di base. Aniello Formicola era un vecchio funzionario di partito, aveva ricoperto molti incarichi amministrativi e politici in Federazione; era stato per lungo tempo segretario politico della sezione di Ercolano. Abitava vicino al cielo, al 21° piano di un palazzo del Centro Direzionale. Dalla terrazza di casa sua, dove durante gli incontri ci sistemavamo attorno a un tavolo, si dominava il mare, il Vesuvio e, dalla parte opposta, la pianura con i suoi innumerevoli paesi. Da lassù, se ti affacciavi, i treni della Stazione Centrale sembravano i giocattoli dei bambini ed il loro sferragliamento arrivava ovattato, senza stridori. Aniello era alto, atletico, lucido, ad onta degli inevitabili acciacchi dell’età. Ripeteva più volte di essere rimasto un socialista di vecchio stampo, un po’ romantico: “Non ho mai letto Marx; solo De Amicis, al cui socialismo mi sono ispirato”. Prima di ogni conversazione si informava sempre di alcuni vecchi compagni socialisti della mia zona, poi, mi chiedeva di avere i numeri di telefono. Quindi, alla vista del registratore, aggiungeva con la sua parlata lenta, riflettuta: “Non sono preparato a un’intervista, parliamo senza convenzioni”.
- Non ti preoccupare, Aniello, sto raccogliendo testimonianze di vecchi compagni sulla ricostruzione del PSI a Napoli nel dopoguerra. Mi metti a parte dei tuoi ricordi?
- Sono entrato nella famiglia socialista nel dicembre del A Napoli il partito non era ancora organizzato ed i primi incontri li facevamo a Piazza Matteotti, a casa di Luigi Renato Sansone. Già nel 1944, poi, con Pasquale Catapano, un compagno di Terzigno, costituimmo un primo NAS.
- Ma perché i socialisti di Napoli difettavano di organizzazione?
- Non erano i socialisti di Napoli; era tutta l’Italia meridionale che mancava di filoni organizzativi. A differenza dell’organizzazione clandestina del PCI, noi potevamo contare solo su personalità. Una di queste, per esempio, fu Porzio, che, su indicazioni provenienti da Roma ancora occupata dai tedeschi, aveva assunto l’incarico di segretario per l’Italia Meridionale.
- La scelta della lista unica col PCI fu una decisione condivisa da tutto il partito?
- Ci allineammo alle scelte del sud, a Pietro Mancini, ai socialisti siciliani, che erano presenti anche nei sindacati della Terra. Le grosse frange del nord erano, invece, contrarie, erano sulle posizioni di Lelio Basso.
- Bisogna aspettare il 1948 per parlare di una prima autonomia socialista?
- Sì, è vero. Dopo il 1948 ci staccammo dal filone comunista ed andammo affermando, sotto la spinta organizzativa di Rodolfo Morandi, il principio delle liste singole.
- Tu hai conosciuto Morandi?
- Sì e ti devo dire, a mio giudizio, che Rodolfo impropriamente è stato considerato un fusionista per eccellenza. Non credo sia vero. Si deve alla sua opera, invece, il merito –che fu una necessità per la nazione- di aver saputo ricompattare il partito, dopo la batosta elettorale del 1948.
- Però il PSI ha collaborato a lungo con il PCI.
- Il PSI ha collaborato ed è stato fedele al patto di unità di azione. Il PCI, però, ha avuto sempre una visione dell’unità distorta, una visione in cui il PSI doveva avere un ruolo di sottomissione alla politica comunista. D’altra parte, capisco, pur non condividendo, il punto di vista del PCI, che ha sempre pensato di dovere rappresentare da solo la classe operaia.
- E tu, che hai ricoperto ruoli di responsabilità in Federazione, hai elementi per cancellare questo “diritto di proprietà” del PCI?
- Devo ammettere che la Federazione napoletana non sempre ha perseguito una politica di conquista dei ceti proletari. Infatti, mai siamo riusciti ad affermarci, elettoralmente, nei quartieri napoletani più poveri o nelle periferie operaie.
- E per quale motivo?
- Perché a Napoli c’è stato sempre un partito, che ha inteso guardare più alla conquista del potere che non all’organizzazione della politica. Molti di noi anziani ci siamo battuti fino a pochi anni fa, invano, per cercare di costruire una buona organizzazione. I NAS potevano rappresentare il salto di qualità, che non c’è stato: la forza del partito, specie al nord, veniva proprio dai luoghi di lavoro, ma nessuno se ne è curato più di tanto. Anche con lo stesso Craxi a capo del governo e Martelli responsabile del partito, si è pensato a consolidare e sostenere più i profili dei manager che non quelli della classe operaia.
C’è molto traffico, di sabato, ad Afragola, specie intorno a mezzogiorno. E fu proprio un sabato, a quell’ora, infatti, che mi presentai a casa di Pasquale Tuccillo, un vecchio compagno socialista, a lungo funzionario della Federazione napoletana. Tuccillo, che aveva lavorato “gomito a gomito con Pietro Lezzi”, aveva avuto anche responsabilità sindacali nella CGIL ed era stato segretario provinciale prima dei braccianti agricoli e poi degli edili. All’epoca della nascita del PSIUP aveva seguito Peppino Avolio ed era stato incaricato di dirigere la federazione casertana del nascente partito. Poi, il rientro nella vecchia casa madre. Con i suoi ottant’anni suonati (all’epoca in cui lo incontrai), Tuccillo rappresentava un prezioso testimone di una storia, che si raccontava con fotogrammi sempre più sbiaditi.
- A quando risale, allora, la tua militanza nel partito socialista?
- La mia militanza risale alla fine del 1949. Sono un operaio che, nel periodo bellico, ha lavorato a Vigliena; riparavo sommergibili. Poi, ho lavorato nella piccola e media industria e, man mano, mi rendevo conto delle sofferenze dei lavoratori, sentendo sulla mia pelle lo sfruttamento reale a cui erano sottoposti. Nacque, allora, in me il bisogno di dare un contributo per cercare di trasformare questa situazione e mi iscrissi al partito socialista, formazione in cui ricoprii anche incarichi di responsabilità.
- Ma dove si è consolidata questa tua coscienza politica?
- Io sono originario di Afragola, un comune a prevalente economia agricola, con una forte richiesta di bracciantato. Ricordo che, alla fine degli anni quaranta, ad Afragola, i braccianti si riunivano in due piazze –Piazza Santa Maria e Piazza San Marco-, luoghi che funzionavano come una sorte di centro per l’arruolamento, un vero e proprio ufficio di collocamento a cielo aperto. I braccianti erano fila sin dalle tre del mattino, ora in cui arrivavano i proprietari terrieri, che, dopo aver tastato i muscoli dei lavoratori, sceglievano quelli che potevano assicurare un impegno massacrante nei campi, per dieci ed anche dodici ore, con una paga veramente irrisoria.
- Questo mercato di braccia ti colpì?
- Sì. Fu la molla che mi fece decidere di dare un contributo personale per far capire che quello era un modo ingiusto di lavorare. Cominciai a parlare con quei braccianti, cominciai a dir loro che io andavo a lavorare alle sette del mattino, orario in cui loro erano già stati abbondantemente sfruttati. Gradualmente, un piccolo gruppo di lavoratori agricoli cominciò a frequentare la Lega dei braccianti agricoli, a partecipare alle discussioni, a predisporre le condizioni per poter chiedere condizioni di lavoro meno massacranti. Riuscimmo ad organizzare uno sciopero con relativo corteo sino al palazzo comunale.
- Da Afragola a Napoli, in Federazione, una scelta necessaria?
- Una scelta di vita, direi. Per proseguire la lotta a favore di chi chiedeva di migliorare la propria condizione lavorativa, contro che, invece, aveva tutto l’interesse che nulla cambiasse. Una lotta impari ed aspra. Scelsi, così, di dedicarmi al riscatto reale della condizione dei lavoratori.
- Fu facile trovare una sponda nei comunisti?
- Sì. Ho operato molto in campo sindacale e posso ben dire che per tutto ciò che riguardava l’avanzamento della classe operaia nelle conquiste economiche, civili, sociali, assistenziali, c’era un’intesa massima. Socialisti e comunisti, al di là, delle ideologie, abbiamo sempre agito unitariamente.
- Tu hai avuto modo di lavorare nel partito anche a fianco di Francesco De Martino; cosa ti è rimasto di quella collaborazione?
De Martino era un gran signore, un galantuomo della politica, con grandi capacità politiche. Forse, non brillava nel ruolo organizzativo. Da lui ho ricevuto insegnamenti di onestà, di moralità, di rettitudine. Mai e poi mai il Professore avrebbe concesso qualcosa di anomalo, mai si sarebbe invischiato in situazioni poche chiare. Altri tempi. Ed altri uomini!