Il 13 settembre 2007 moriva, a Napoli, Gaetano Arfé. Era nato a Somma Vesuviana, nel 1925, da Raffaele e Maddalena Maffezzoli.[1]
Io ho avuto in sorte il privilegio di conoscere il professore Arfé molto da vicino. L’ho frequentato assiduamente nei suoi ultimi dieci anni di vita, intrattenendomi con lui in lunghe conversazioni e raccogliendo molte sue testimonianze su fatti e protagonisti della storia del socialismo italiano. L’ultima volta che l’ho incontrato, a casa sua (in via Biagio da Morcone, a Napoli), è stato qualche giorno prima della sua scomparsa. Era visibilmente stanco, pieno di dolori, sottoposto a dosi massicce di medicine; ma era lucidissimo nel ragionamento, pacato nei giudizi, prolifico di suggerimenti e, come sempre, pronto a dare vigore ai sogni ed alla speranza. In ogni occasione (così come nell’ultima), Gaetano non dimenticava mai la sua città nativa, Somma Vesuviana, il suo “piccolo mondo antico”, il luogo della sua “utopia”. A giustificazione della ricorrente definizione, era solito raccontare che oltre mezzo secolo addietro, Gianni Bosio gli aveva regalato “Un sogno”, un opuscolo di Andrea Costa, in cui era descritto ciò che Imola –città natale di Costa- sarebbe diventata a socialismo realizzato, confessandogli che in quelle pagine –dopo aver sostituito Imola con la sua Acquanegra sul Chiese- anch’egli si ritrovava. E Pietro Nenni, al quale una volta Arfé aveva raccontato l’episodio, lo aveva intricato dicendogli che ogni uomo ha nel cuore una propria intima e nascosta utopia, un luogo dove colloca il proprio sogno. Anche il faentino, infatti, immaginava che il socialismo fosse come la società della sua triste infanzia liberata da tutte le oppressioni e da tutte le ingiustizie. E, perciò, Arfé, sull’onda dei ricordi giovanili e delle esperienze vissute, amava ripetere: “Ora che sono scomparsi tanti vecchi compagni e il luogo storico di tante azioni svolte a Somma non esiste più, posso collocare lì la mia utopia, col legittimo orgoglio di esserle rimasto fedele”.
Chi, da subito, aveva esercitato una forte influenza sulla formazione politica del giovane Gaetano era stato il padre, Raffaele -visceralmente avverso al fascismo- socialista non solo dal punto di vista politico e culturale, ma anche da quello sentimentale. Era, infatti, il vecchio Arfé, compatibilmente coi tempi, all’avanguardia su temi che sarebbero divenuti attuali decenni dopo, come quelli della protezione degli animali –la mia casa era piena di uccelli, cani e gatti fortunosamente salvati-, dell’ambientalismo, del femminismo, tutte questioni ereditate da un patrimonio ideale e culturale di un socialismo di natura prampoliniana e turatiana.
Gli anni dell’adolescenza e della prima gioventù di Arfé passarono velocemente. Un’intera generazione non aveva avuto tempo nemmeno di accorgersi dei tragici eventi accaduti nel mondo. Sembrava, anzi, che tra le pieghe di una tranquilla comunità –quale quella vesuviana- il torpore avesse avvolto le coscienze e le avesse preservate anche dai cupi scenari, che erano nati e si stavano disegnando in Europa. “Gli eventi intorno a noi procedevano, per la verità, impetuosi e drammatici: entrammo nel ginnasio con la guerra d’Etiopia, incontrammo la guerra di Spagna, ne uscimmo con la guerra mondiale. Ma erano eventi che, nonostante la propaganda del regime, non ci coinvolgevano: il giorno della caduta di Madrid ci fu comandato di saltare la lezione e di manifestare il nostro entusiasmo per le strade; ma del corteo formatosi dinanzi alla scuola arrivò alla meta, che era il monumento ai caduti, soltanto l’insegnante di educazione fisica col manipolo di fedelissimi che eccellevano nella sua materia”[2].
Fu nel 1942, quando si iscrisse all’Università degli Studi di Napoli, che gli si ampliarono orizzonti e conoscenze. Gli incontri importanti diventarono frequenti e le occasioni di confronto si moltiplicarono. Fu quello il tempo in cui il giovane Arfé cominciò ad avere contatti con gli ambienti antifascisti della città. “In quegli anni incontrai molti giovani antifascisti. A Napoli, nell’ambiente universitario fascista, incontrai Renzo Lapiccirella, già clandestinamente comunista, più grande di me di due o tre anni. Ho il vago ricordo ( ma è un ricordo molto sfumato) di aver conosciuto allora anche Giorgio Napolitano[3]”.
A Napoli, ancora nel 1942, Arfè prese contatti con “Italia Libera”, un gruppo clandestino che faceva capo a Ettore Ceccoli, un amico di suo padre. Ceccoli, di estrazione comunista[4] ed editore di alcuni testi universitari, aveva una libreria in via Monteoliveto, frequentata assiduamente da Benedetto Croce. Il libraio, come premio per la maturità classica appena conseguita, aveva fatto un insolito regalo al giovane Gaetano: gli aveva offerto l’occasione di conoscere il grande filosofo. Fu un incontro importante sul piano culturale e politico, destinato a rinnovarsi, in forme diverse, dopo la guerra, quando Arfé entrò come allievo nell’istituto fondato dal filosofo napoletano, a Palazzo Filomarino. “Mi interrogò sulle mie letture, ne ebbi giudizi critici su D’Annunzio e Oriani e consigli di buoni libri da leggere o da rileggere e tra questi, ancora viventi, Omodeo e De Ruggiero, ai quali seguirono Vico e Cuoco, De Sanctis e Silvio Spaventa, del quale mi raccomandò caldamente le lettere dal carcere. Non mancò neanche un riferimento alla poesia e qui il primo nome fu quello di Carducci, il poeta della “epopea sabaudo-garibaldina”, seguìto da quello di due napoletani, ignorati o sottovalutati, a suo giudizio, dalla critica letteraria, Salvatore Di Giacomo e Francesco Gaeta. Mi regalò alla fine una copia del suo libro sul materialismo storico, forse come antidoto alle conversioni al marxismo, divenute frequenti tra i giovani antifascisti della mia generazione”[5].
Il 1942 fu, comunque, un anno cruciale per la formazione di Gaetano Arfé. Il 4 dicembre di quell’anno, infatti, mentre era seduto in un’aula universitaria a seguire una lezione del professore Giuseppe Toffanin, una bomba cadde proprio dietro l’università. Ci fu un fuggi fuggi generale, mentre, dopo un boato assordante, crollava l’intera ala di un edificio (la Manifattura Tabacchi), che era dall’altro lato della strada. Caddero calcinacci, infissi; tutto sembrava polverizzarsi. Il rifugio più vicino era negli scantinati dell’Università: “Quando sono uscito dal ricovero ho capito cos’era veramente la guerra. Su una cassetta per imbucare le lettere scorsi ciò che restava della testa di un uomo. Ho ancora il ricordo del senso di repulsione fisica, che mi percorse, e che si definì nella mia coscienza come impulso a combattere, quale ne fosse il costo, chi, di quello strazio, era il responsabile”.
Quando a Napoli, in seguito ad avvisaglie di ribellione, ci furono i primi arresti fra gli studenti, per ragioni di prudenza, ma soprattutto per la preoccupazione della mamma, Gaetano fu spedito a Sondrio, presso uno zio paterno. E fu a Sondrio, città in cui lo colsero le date dell’8 settembre 1943 e 25 aprile 1945, che entrò in contatto con i gruppi di “Giustizia e Libertà”. Ma in Valtellina Arfé conobbe anche il carcere. Si era alla fine del 1943, quando “Fui arrestato perché ero entrato in contatto con un gruppo di clandestini del Partito d’Azione coi quali avevamo costituito una piccola organizzazione, che si preoccupava di avviare in Svizzera gli ebrei, i perseguitati politici e i disertori. Un giorno si rivolse a noi un tizio, che chiedeva di essere istradato in Svizzera: era un agente provocatore, che, poi, ci denunciò alla questura. Fummo arrestati io ed un giovane salernitano, figlio di un colonnello dei carabinieri. La detenzione durò poche settimane”.
In prigione Arfé conobbe un vecchio comunista, “un rivoluzionario professionale”, arrestato una prima volta nel 1930, rimasto dietro le sbarre fino al 1936, quindi, combattente in Spagna, poi condotto nel campo di concentramento di Vernet, in Francia, e di nuovo in carcere a Sondrio. “Questo comunista mi raccontò la storia dell’Europa tra le due guerre, mi parlò della Repubblica di Weimar, di cui non sapevo praticamente nulla; mi parlò dei conflitti tra socialdemocratici tedeschi e comunisti, delle democrazie occidentali che avevano favorito Hitler. Insomma, mi dette una sua interpretazione della storia tra le due guerre”.
Quell’ incontro segnò profondamente Arfé e gli fece guardare gli avvenimenti che gli si svolgevano intorno con più matura consapevolezza. Insieme agli insegnamenti ricevuti dal padre, alle informazioni del “rivoluzionario professionale” giunse, poi, un ulteriore ammaestramento. “Ci fu il padre di un mio compagno partigiano, più giovane di me, il quale era stato operaio a Torino durante la prima guerra mondiale e nei primi anni del dopoguerra, che mi raccontò dei moti del 1917 e dei consigli di fabbrica. Da lui appresi per la prima volta il nome di Gramsci e seppi anche dello squadrismo a Torino nel dopoguerra”. Furono nozioni di storia apprese, per via orale, direttamente dai protagonisti. “Ciò ha influenzato anche il mio modo di intendere e di studiare la storia del “secolo breve”, che non si impara solo sui libri”.
All’uscita dal carcere Gaetano Arfé, con un gruppo di giovani, fondò un G.A.P. intitolato a Giovanni Amendola. Poi, in quanto studente, ottenne il permesso di frequentare Milano. Gli spostamenti gli consentirono, perciò, di tenere i collegamenti tra i gruppi di Sondrio e quelli della città meneghina, dove aveva sede il C.N.L.A.I. La staffetta politica fu, però, presto scoperta, non lasciandogli altra scelta che quella di andare in montagna, tra i partigiani.
A guerra finita, nel maggio del 1945, Arfé poté riprendere la strada per Somma Vesuviana. Impiegò quindici giorni per giungere al paese natio: “ Sulla stazione di Somma, incontrai Gino Auriemma[6], che si preoccupò di andare a casa mia ed avvertire i miei genitori del mio ritorno, per evitare loro l’emozione di vedermi arrivare senza alcun preavviso. Trovai la mia casa, in via Roma, semidistrutta, bruciata da un gruppo di paracadutisti della divisione Hermann Goering in ritirata da Napoli, con buona parte dei libri mitragliati insieme a piatti e bicchieri. Conservo ancora un libro, che porta il segno della ferita: è un volume dell’Archivio Storico delle Province Napoletane, che ha infisso nel cuore una pallottola calibro 9, partita da una machine-pistole!”.
Il rientro a casa e la fine della guerra consentirono ad Arfé di completare gli studi universitari e di conseguire, nel 1948, sia la laurea in lettere (con tesi su Silvio Spaventa) che quella in filosofia (con tesi su Bertrando Spaventa). Però, “una impronta alla mia formazione, prima ancora che dai professori la ebbi da un gruppo di giovani colleghi che si radunavano in via Mezzocannone, dove era stata raccolta la biblioteca della Facoltà di Economia e Commercio, affidata alle cure di uno studente, Filippo Cassola, che è diventato poi uno storico insigne dell’antichità. In quell’ambiente fui introdotto da una giovane collega, Maria Adelaide Salvaco, che poi è diventata una delle più brillanti funzionarie della Camera dei Deputati. Ricordo, accanto a lei, Vittorio De Capraris e Renato Giordano, storico, il primo, di alto rilievo e colonna del “Mondo” di Pannunzio, divenuto braccio destro, il secondo, di Jean Monnet al vertice della neonata Comunità Europea, scomparsi entrambi in assai giovane età”[7].
Un’intensa attività politica aveva connotato, precedentemente, le giornate sommesi del giovane Arfé. Un primo banco di prova era stata la battaglia per la Repubblica, dura e difficile, con qualche episodio anche cruento. Nel paese alle falde del Somma-Vesuvio, era stata organizzata, dai monarchici, una manifestazione contro il sindaco comunista e repubblicano, espressione del C.L.N., Francesco Capuano. Il raduno -sotto l’occhio acquiescente dei carabinieri, quasi tutti monarchici- era stato fissato proprio davanti al palazzo comunale. Dalle campagne si muovevano molti contadini e, al grido di “viva il re”, marciavano verso il comune, per scacciare il sindaco comunista, a cui erano giunti in aiuto, proveniente da Napoli, il ligure Carlo Obici e Gino Vittoria. Lo scontro fu inevitabile: uno dei contadini cadde sotto i colpi sparati da Vittoria; poco dopo fu dato fuoco alle locali sezioni del Psiup e del Pci. “
“Il giorno dopo mi arrestarono e fu Francesco De Martino[8] ad ottenere il mio immediato rilascio. L’attentatore di Obici, infatti, era morto per sopraggiunta setticemia ed era stato colpito per legittima difesa. Fummo tutti prosciolti”[9].
Ancora a Somma Vesuviana –nel piccolo mondo antico– dove aveva avuto inizio una fase politica molto viva, interessante ed appassionante, una piccola minoranza repubblicana, molto solidale, contrapposta ad una maggioranza monarchica, fortissima, rappresentata, oltre che dai fedelissimi del re, dalla D.C. e dal P.L.I., stava preparando la campagna referendaria a favore della Repubblica. Perciò, in un giorno della primavera del 1946, era arrivata Vera Lombardi, dirigente socialista, invitata da Raffaele Arfé. Quando padre e figlio erano andati ad accoglierla alla stazione della circumvesuviana, “avvertii subito che Vera Lombardi era animata da una forza indomabile. La interessò molto il fatto che io avessi partecipato alla Resistenza sui monti della Valtellina. Parlammo a lungo e potrei ripetere, quasi testualmente i termini di quella appassionata conversazione perché era la prima volta che venivo indotto a riflettere sul senso della mia esperienza personale e di quella dei miei compagni, sulla collocazione del movimento resistenziale nel grandioso e tragico quadro della seconda guerra mondiale, sulla funzione che essa assumeva nella storia del nostro paese. Fu una sorta di lezione fondata sui materiali che io stesso fornivo: la concezione della storia della Resistenza –le sue radici sociali, le sue componenti ideologiche, i suoi orientamenti politici- alla quale sono pervenuto, ha preso di lì le mosse”[10].
Il 1947, intanto, si era aperto con un evento lacerante, che il giovane Arfé aveva vissuto come un dilemma politico ed ideale: la scissione socialista. La scelta traumatica era tra l’ala che intendeva conservare e consolidare l’unità d’azione coi comunisti -nonostante che su di essa gravasse, pesante, l’egemonia del PCI- e chi levava la bandiera dell’autonomia socialista dal comunismo di osservanza staliniana. Arfé scelse di seguire Saragat nel PSLI, diventò segretario della Federazione Giovanile di Napoli ed entrò anche nella Direzione nazionale. Scelse, quindi, Francesco De Martino, che all’epoca militava ancora nel Partito d’Azione, come confidente e consulente politico, in spirito di fratello maggiore. L’esperienza socialdemocratica durò, però, poco[11]. A distanza di un anno, infatti, Arfè lasciò il gruppo di Palazzo Barberini proprio mentre si scioglieva il Partito d’Azione in cui militava De Martino: entrambi si ritrovarono, quindi, nel Partito Socialista Italiano.
Arfé restò a Napoli sino al 1950. Dopo la laurea, infatti, aveva avuto un incarico di insegnamento di storia e filosofia al vecchio liceo “A.Diaz” di Ottaviano mentre continuava a frequentare l’Istituto di Studi Storici di Benedetto Croce, dove ricevette la spinta ad approfondire i grandi temi del meridionalismo, della cultura risorgimentale e del liberalismo europeo. “Croce si avvicinava e parlava con tutti quelli che studiavano nella sua biblioteca. Improvvisava vere e proprie lezioni. Gramsci divenne tema ricorrente. Uomo di grande cultura –diceva- e di grandissimo ingegno, combattente e martire, ma non filosofo. La filosofia, Gramsci, l’aveva volta a fini pratici, rispettabili quanto si vuole, ma del tutto estranei alla sfera della teoria. Le sue formulazioni filosofiche erano, dichiaratamente, espressioni di interessi politici: le sue interpretazioni della storia del Risorgimento italiano erano anch’esse il riflesso di una problematica propria del partito di cui Gramsci era stato il capo e non il frutto di una disinteressata indagine storica”[12]. Una figura, in particolare, segnò lo spessore culturale di quei giorni: quella del direttore dell’Istituto, Federico Chabod. “Ai fini della mia formazione professionale vengono, poi, le lezioni di storia della storiografia di Federico Chabod sulla Riforma e la Controriforma e sulla Rivoluzione francese. Chabod aveva la straordinaria capacità, esaltata da una mimica da grande attore, di ricostruire, momento per momento, la storia del libro di cui parlava, la genesi, l’ispirazione, le fonti, le tecniche, la sua collocazione nella storia della storiografia e della cultura”[13].
Ancora nel 1950, Gaetano Arfé aveva vinto un concorso negli Archivi di Stato. La prima sede era stata Genova da dove riuscì ad ottenere il trasferimento a Napoli, luogo in cui sarebbe rimasto fino al 1952. Nell’intervallo, tra il raggiungimento delle sedi di Genova e Napoli, non venne mai meno l’impegno culturale e politico del giovane professore nelle sedi culturali e nel partito socialista. Divenne, infatti, uno dei testimoni e dei protagonisti del “Gruppo Gramsci”[14], senza mai abbandonare la militanza attiva, per la quale, con De Martino, asceso frattanto alla segreteria della Federazione di Napoli, il giovane Arfé era stato chiamato nel comitato direttivo del PSI, assumendo la carica di responsabile della commissione culturale[15].
Quando era partito per Genova, Arfé aveva dovuto accomiatarsi da Palazzo Filomarino. Il congedo fu anche l’ultima occasione di incontro con Croce. “Il discorso ritornò sul marxismo e su Gramsci. ‘La filosofia è una cosa – sosteneva Croce- e la politica è un’altra. Ma voi siete napoletano e queste cose le capirete, forse le avete già capite’. Non so se Croce sarebbe soddisfatto di come ho capito le cose. So però di dovere a lui il senso delle distinzioni, l’amore per le idee chiare, il gusto per l’ordine nel pensare. So di dovere anche molto a lui per una concezione serenamente laica della vita e dei suoi valori. C’è chi oggi si vanta di non avere avuto maestri e di non volerne: è come vantarsi di non aver avuto né padre, né casa, né patria. Io considero un privilegio della sorte aver avuto tra i miei maestri Benedetto Croce”[16].
Intanto cresceva e maturava in Arfé la consapevolezza di dover dare la propria partecipazione al processo di costruzione del paese. La politica, la voglia di esserci, il coraggio di assumersi le responsabilità erano il segnale che tanti insegnamenti non erano stati ricevuti invano. “Nel 1952 fui candidato per la sinistra unita, nel collegio di Somma Vesuviana, alle elezioni provinciali. Un collegio perduto in partenza. Avevamo come simbolo la tromba della riscossa”. Ma non ci fu riscossa. I risultati dettero ragione ai cattolici. Subito dopo le elezioni del 1952, Arfè fu costretto a lasciare, per la seconda volta, Napoli ed a trasferirsi all’Archivio di Stato di Firenze. Il provvedimento telegrafico, a firma dell’allora ministro Scelba, arrivò in seguito ad un comizio che Arfé aveva tenuto a Napoli, insieme ad un giovane Enrico Berlinguer[17], in occasione del Convegno patriottico della Gioventù meridionale.
A Firenze, dove c’era un Archivio di antica tradizione e di alto livello, “fui impegnato nel lavoro, allora appena agli inizi e per me più interessante, di preparazione del materiale che lì confluiva per la compilazione della guida degli Archivi di Stato italiani. Ispezionai archivi di tutta la regione, cominciai l’inventariazione delle carte del Comitato toscano di liberazione nazionale[18]”.
Nel capoluogo toscano si cementarono i rapporti di Arfé col gruppo degli allievi e amici di Calamandrei -Paolo Barile, Alberto Predieri, Carlo Furno- con Tristano Codignola, che dirigeva la casa editrice “La Nuova Italia”, con Enzo Enriquez Agnoletti, redattore capo del “Il Ponte”, oltre che con Giorgio Spini, Carlo Francovich, Mario Delle Piane, Gianni Bosio, Nello Traquandi ed Ernesto Rossi, amici fraterni di Carlo Rosselli. “A Firenze, tramite Franco Venturi, conobbi Gaetano Salvemini, col quale collaborai a raccogliere i suoi scritti sulla questione meridionale, pubblicati, poi, dalla casa editrice Einaudi. Ricordo che Salvemini mi disse: è meglio che il tuo nome non compaia, perché io sono uno degli uomini più detestati d’Italia, ma già vecchio; tu, invece, sei giovane e ti attireresti tutte le antipatie, che ho raccolte nella mia vita, tra i crociani, i comunisti ed i cattolici, per non parlare dei fascisti. Andavo continuamente a trovarlo finché rimase a Firenze, in una vecchia e modesta pensione, in via Sangallo. Gli ultimi miei incontri con lui furono a Sorrento, nella villa La Rufola, dove morì, ospite di Giuliana Benzoni. Nelle ultime ore disse: muoio felice, perché ho tanti amici intorno. Erano i vecchi e i vivi, che lo avevano accompagnato per tutta la vita ”.
Ancora a Firenze, sempre tramite Venturi, Gaetano Arfé ebbe contatti con “Il Ponte” di Piero Calamandrei, ne frequentò la redazione e scrisse molte recensioni a libri. “Fui accolto quale membro della famiglia nella cerchia de ‘Il Ponte’ di Calamandrei, seguii passo passo il concepimento e la nascita del movimento di ‘Unità popolare’ promosso dallo stesso Calamandrei e da Codignola contro la riforma elettorale, proposta dal governo, passata alla storia con la definizione di legge truffa”. A Firenze ebbe modo di conoscere e frequentare anche Giorgio La Pira e don Lorenzo Milani., nella cui scuola fu invitato a tenere anche qualche lezione. Con La Pira, il cui tramite di conoscenza era stato Pietro Nenni, si trattò solo di incontri politici e, per la verità, nemmeno troppo frequenti. Con don Lorenzo Milani, invece, si instaurò un rapporto di stima reciproca e di vera collaborazione.
A Firenze crescevano anche approfondite riflessioni politiche. Proprio dal capoluogo toscano, infatti, nel 1956, all’epoca del XX Congresso di Mosca, partì l’iniziativa per aprire un dibattito nella sinistra italiana. E fu sempre dalla stessa città che, si può dire, abbiano avuto inizio le responsabilità politiche di Arfé ai vertici del Partito Socialista. “Nel 1957 fui eletto, nel corso del congresso di Venezia, nel Comitato Centrale del PSI: furono soprattutto i fiorentini ed i milanesi a sostenermi. Con i loro voti arrivai tra i primissimi eletti. Avevo scritto la “Storia dell’Avanti”, commissionatami da Nenni, che mi aveva reso popolare nel partito”.
La Storia dell’Avanti!, in due volumi[19], aveva visto la luce nel 1956, subito dopo il XX Congresso di Mosca, quando Pietro Nenni aveva inteso rimarcare la svolta autonomistica, attraverso una rivalutazione critica di tutta la tradizione socialista, fino a quel momento, taciuta o mortificata. Raniero Panzieri, responsabile della politica culturale del partito, era stato incaricato di individuare qualcuno che si assumesse la responsabilità di scrivere, ed anche in tempi brevi, la storia dell’organo di stampa socialista. E per questo erano stati immediatamente convocati, presso la Direzione del partito, Gianni Bosio, Giovanni Pirelli, Domenico Zucaro e, insieme con qualche altro compagno, Gaetano Arfé. “Le discussioni furono lunghe, intense, inframezzate da divagazioni sui grandi temi, che in quel momento ci appassionavano. Le idee venivano fuori dalle nostre menti con impeto vulcanico, si incontravano, si scontravano. Eravamo convinti che dopo quella della Liberazione una nuova grande stagione si aprisse: l’unità del movimento operaio sui ruderi dello stalinismo, la ripresa di tutta la tradizione autonomistica e libertaria del movimento di classe, l’ipotesi di una travolgente marcia in avanti dopo lunghe e oscure battaglie difensive[20]”. Tutti furono d’accordo che il lavoro dovesse essere agile e di facile lettura. Tutti furono d’accordo che la responsabilità dello scritto dovesse essere solo di Arfé. “ Benché riluttante, finii con l’accettare l’incarico. Bosio si assunse il compito di raccogliere tutti i riferimenti all’Avanti! esistenti negli atti ufficiali del partito e tutte le altre notizie utili che avesse potuto reperire fino al 1926. Un analogo impegno fu preso da Pirelli per il periodo della emigrazione e della Resistenza. Panzieri, con un colpo di mano, complice Gino Prandi, allora amministratore del giornale, si impadronì dell’intera collezione dell’Avanti! e me la fece portare a Firenze, dove vivevo, perché non fossi vincolato dagli orari delle biblioteche. E così ebbe inizio l’impresa[21]”. Con un’autentica catena di lavoro (Arfé scriveva i capitoli, Bosio li rileggeva, il tipografo li stampava e correggeva le bozze), il primo volume della Storia dell’Avanti! fu pronto nel settembre del 1956, in tempo per essere diffuso nelle feste autunnali dell’Avanti! Fu un grande successo. Si susseguirono le presentazioni in molte città d’Italia, Francesco Compagna e De Capraris lo proposero a Napoli, Rossana Rossanda lo illustrò a Milano. Consensi significativi arrivarono da Gaetano Salvemini e Lucio Lombardo Radice. L’opera, quindi, ebbe molto successo e dette popolarità al suo autore. Il primo risultato fu l’elezione nel Comitato Centrale del Partito; seguito, nel 1959, dalla nomina, con Antonio Giolitti, alla condirezione di “Mondo Operaio”, il cui direttore politico era Francesco De Martino. “Poi, da allora, sono rimasto nel giro della politica attiva. Nel 1966 fui condirettore (c’erano due direttori, uno socialista, io, e uno di provenienza socialdemocratica, Flavio Orlandi) e, poi, direttore dell’Avanti!, per ben dieci anni.”.
La nomina di Arfé alla direzione dell’Avanti! fu voluta, più di tutti, da Riccardo Lombardi, all’epoca molto ostile all’unificazione delle due anime socialiste. Lombardi, infatti, – pur avverso all’unificazione socialista e nonostante Arfè non militasse nella sua corrente- aveva chiesto tra le condizioni per restare nel PSI, che il nuovo direttore dell’organo di stampa del partito fosse di alto livello, desse garanzia a tutte le componenti e non fosse fazioso. E aveva fatto un nome: quello, appunto, di Gaetano Arfé. “Per questo Nenni[22] mi chiamò e mi chiese di assumere la direzione dell’Avanti! per la componente socialista. Io ne avevo poca voglia, perché avevo avuto l’incarico all’università di Bari. Allora lui mi rassicurò, dicendomi che sarebbe stato un incarico di pochi mesi, che si sarebbe esaurito subito dopo il primo congresso del partito unificato, quando si sarebbe data a tutte le strutture del partito una sistemazione stabile. Così mi trovai ad essere direttore dell’Avanti!”.
Gli anni della direzione dell’Avanti! scivolarono tra preoccupazioni e soddisfazioni, in un tempo particolare della storia d’Italia: ci fu la contestazione giovanile del ‘68, ci furono le trame nere, ci furono i segnali di un golpe annunciato. “Nel ’68 ero direttore dell’Avanti! ed insegnavo a Bari. Già allora, questi fenomeni di contestazione avevano una loro ragion d’essere, che era la sclerotizzazione dei partiti. Ma le loro ragioni non furono mai lucidamente teorizzate e non seppero mai darsi una prospettiva politica, che non fosse utopistica, in una realtà gravida di pericoli. Il PSI, nella sua ala sinistra, e in particolare Lombardi, ma anche in Giacomo Mancini, aveva un atteggiamento di apertura – e alcuni socialisti addirittura di aperta simpatia- nei confronti dei giovani contestatori, che, per la prima volta, attaccavano da sinistra il partito comunista e incrinavano la sua egemonia sull’intera sinistra italiana. Lo stesso Nenni, che non rinnegava la sua antica vocazione libertaria, ne seguiva con interesse le mosse e ne traeva anche malinconici auspici per le sorti del partito unificato. Ma riteneva, tuttavia, necessaria la contestata presenza socialista al governo, temendo, in caso di un abbandono socialista, un vuoto di potere, che avrebbe potuto aprire la via ad avventure reazionarie, di cui avvertiva i sintomi e di cui si intravedevano i segni e i disegni. Infatti, Nenni era molto preoccupato della situazione politica italiana e dei tentativi di colpo di stato”.
Parallelamente alla direzione dell’Avanti!, all’insegnamento universitario, all’impegno politico, Arfé aveva pubblicato, nel 1965, per la casa editrice Einaudi, la Storia del socialismo italiano(1892-1926)[23]. Il testo prendeva l’avvio da una data storica, quella del 14 agosto 1892, quando si era riunito a Genova il secondo congresso dei lavoratori italiani, quello in cui si sarebbe consumata la scissione tra la corrente socialista e quella anarchica e operaista.
Ma la Storia del socialismo italiano e la Storia dell’Avanti! non sono state le uniche opere di Arfé ad inserirsi nel filone della storiografia sul movimento operaio italiano e sul Partito socialista[24]. Fra gli innumerevoli scritti, infatti, sparsi nelle pagine delle riviste nazionali ed internazionali, Arfé si era segnalato ancora per una Storiografia del movimento socialista in Italia[25] e per Il movimento giovanile socialista. Appunti sul primo periodo:1903-1912[26]. Aveva scritto, inoltre, pagine di storia del Risorgimento italiano e della guerra civile americana. Aveva anche collaborato a programmi di divulgazione storica del terzo programma della RAI e prestato la sua consulenza a trasmissioni televisive di ricostruzione storica quali Settanta anni di socialismo in Italia (primo canale RAI, 1962), La sconfitta di Trotsky (secondo canale RAI, 1967), Nascita di una dittatura (programma in sei puntate ideato da Sergio Zavoli, 1972), Dibattito sul fascismo (in occasione della pubblicazione dell’Intervista sul fascismo, di Renzo De Felice, secondo canale Rai, 1975).
Nel 1972 l’Emilia riservò ad Arfé il primo mandato parlamentare, facendolo eleggere, infatti, senatore del Collegio di Parma, città dove andò anche ad abitare[27]. “Ebbi l’onore di succedere nel collegio senatoriale a Fernando Santi. Giacomo Ferrari, mitico capo della Resistenza parmense, padre di un ragazzo caduto eroicamente nella lotta, brillante ministro dei trasporti nel governo “tripartito”, a lungo sindaco di Parma, comunista anomalo, mi accolse come continuatore della grande tradizione unitaria, popolare e antifascista della quale Santi era stato campione e simbolo e mi consegnò una pergamena con una commovente scritta da lui dettata, con la quale mi faceva socio onorario dell’ANPI di Parma”[28]. Lo scranno senatoriale gli consentì di ricoprire gli incarichi di vicepresidente della Commissione istruzione (nella cui veste fu relatore dei Provvedimenti urgenti per l’Università) e, poi, della Commissione esteri. Nel 1976, quindi, in seguito all’elezione a deputato nel Collegio di Parma-Modena-Reggio-Piacenza, entrò a far parte della Commissione affari costituzionali e, poi, della Commissione istruzione e belle arti. Fu chiamato anche a rappresentare il gruppo socialista nella trattativa sulla riforma del Concordato ed il 1° dicembre dello stesso anno fu incaricato di esporre in Aula la posizione del partito: “se noi siamo oggi, in questa sede, a discutere, è proprio perché i fondamentali nodi del rapporto tra Stato e Chiesa, dal Concordato del 1929 non furono sciolti…Con il Concordato stipulato con il regime fascista si risolsero solo i conflitti di interessi e le questioni connesse al riconoscimento di privilegi; ma questo non fa che confermare che il successo fu di quel cattolicesimo per il quale, riprendendo e rovesciando l’espressione di Croce, Parigi val bene una messa”[29].
Nel 1979, candidato nel Collegio Nord-Est per le prime elezioni al Parlamento europeo a suffragio universale, Arfé risultò eletto all’assemblea di Strasburgo, dove occupò un posto nella Commissione cultura e fu investito del compito di redigere una Carta dei diritti delle minoranze etniche e linguistiche (conosciuta anche come Carta di Strasburgo), approvata dal Parlamento europeo il 16 ottobre 1981. A Strasburgo Arfé si impegnò a fondo anche per l’approvazione del progetto federalista di Altiero Spinelli sulla riforma di Trattato di Unione europea. Sulla scia di un’idea europeista, nel 1983, fu l’ideatore di un’iniziativa a supporto della riforma, chiedendo l’adesione, attraverso i maggiori quotidiani, con Una firma per l’Europa.
Nel 1985, poi, dopo quasi mezzo secolo di militanza nel PSI, Gaetano Arfé fu costretto a prendere la sofferta decisione di lasciare il partito. Fu una scelta, la sua, che si inseriva in una più ampia critica a Craxi ed alla sua gestione del partito; il segretario politico era, infatti, accusato di essere settario e tendente ad una gestione del tutto personale. “Le motivazioni più profonde, però, nascevano per Arfé dalla necessità di “riqualificare la sinistra” con una riorganizzazione unitaria delle sue componenti, come illustrò in una pubblicazione sulla “Questione socialista” a cura di Vittorio Foa e Antonio Giolitti”[30]. Per questi motivi aderì, quindi, alla Sinistra Indipendente e nel 1987, nel Collegio di Rimini, fu eletto senatore[31]. Fu l’ultimo mandato parlamentare, che si snodò a ridosso dell’esplosione della crisi del sistema partitico[32]. Con l’esaurimento della X legislatura[33] del Parlamento italiano, si chiuse l’esperienza attiva in politica di Gaetano Arfé[34]. Alla fine degli anni ’90, per limiti d’età, terminò anche l’attività universitaria alla Facoltà di Scienze Politiche dell’Università “Federico II” di Napoli. Ma non si concluse il suo impegno per i temi politici, che profuse, si può dire quasi quotidianamente, in convegni storici e politici, partecipazione a dibattiti, composizione di saggi ed articoli per riviste specializzate e quotidiani d’opinione.
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Ogni volta che mi si offriva l’occasione di conversare con Gaetano Arfé, annotavo sistematicamente ogni suo pensiero. Ho, così, raccolto molti ricordi, riflessioni e testimonianze riguardanti i suoi studi di storico[35] e la sua esperienza di politico. Gli spunti erano suggeriti da una curiosità, da un articolo di giornale, da un libro o da un fatto di cronaca.
– Cos’è ed a cosa serve la storia?
– La storia è indefinibile. In qualche mio scritto ho provato a definire il mio modo di interpretare il mestiere di storico. Posso dire che i miei primi interessi per la storia sono nati dalla vita di ogni giorno e dalla politica. Anch’io mi sono chiesto, molti anni fa, cos’è la storia e perché uno la racconta in un modo ed un altro in un modo del tutto diverso. La storia differisce dalle scienze esatte proprio perché l’elemento dell’interpretazione è il punto di vista da cui uno si colloca ed è determinante. Il mio punto di vista è stato, via via, alimentato da lezioni di metodologia della storia, soprattutto dalla metodologia teorica, appresa direttamente da Croce. La tesi, infatti, della contemporaneità della storia è illuminante. Una volta assodati i fatti della storia non è che non ci si ritorna più su!
– Si può dire che ciascuno ripensa la storia sulla base delle esperienze che ha fatto e della vita vissuta nel proprio tempo? In altre parole, è possibile affermare che si colgono le dimensioni degli eventi storici attraverso le lenti delle proprie esperienze?
– Certamente. La storia del fascismo scritta nel 1945 è diversa da quella scritta mezzo secolo dopo. Come, d’altra parte, la storia dell’Italia liberale. La storia, poi, presenta sempre in sé degli elementi contraddittori, e, perciò, ognuno può seguire un filone piuttosto che un altro, dare un’interpretazione piuttosto che un’altra, a seconda di una serie di fattori, che si legano direttamente alle personali esperienze. Nella storia dell’Italia liberale, per esempio, la figura di Giolitti è, per Salvemini, quella corrispondente al ministro della malavita[36]. Ansaldo[37], invece, ha scritto un libro su Giolitti, ministro della buona vita: lo stesso personaggio è interpretato e presentato in modo diametralmente opposto, a seconda del punto di vista da cui si pone il ricercatore. E non è che uno abbia detto bugie ed un altro verità. E’ un modo di intendere la funzione che Giolitti ha avuto nella storia d’Italia. Ognuno si porta dietro le sue contraddizioni, nella vita come nella lotta politica, per cui uno vede in Giolitti il costruttore dell’Italia liberale; un altro, invece, lo disegna come il corruttore della vita politica italiana, come quello che ha impedito la rigenerazione dell’Italia, ha praticato la violenza elettorale ed ha portato i fascisti nel listone. A seconda di come lo si guarda, della personale visione del mondo, è vera l’una e l’altra cosa.
– Qual è, in questo caso, il compito dello storico?
– Compito dello storico sarebbe quello, al di là della polemica politica ‘ministro della mala o della buona vita’, di cogliere le contraddizioni, spiegarle e collocarle nella storia. Per cui il giudizio storico differisce da quello morale, nel senso che uno non condanna o assolve l’uomo, ma vede la funzione che quel personaggio ha avuto nella storia, si sforza, quindi, di capire e presentare quelle idealità che lo hanno indirizzato ad agire in un determinato modo. Lo stesso fascismo è pieno di contraddizioni. Anche per questo periodo storico e per Mussolini ci sono sempre tendenze interpretative diverse. Poi, alla fine, finiscono col prevalere le peggiori, specialmente dal momento in cui il duce si alleò con Hitler. Il primo Mussolini, infatti, ancora si portava dietro le esperienze massimaliste del socialismo, poi diventò lo strumento degli agrari (anche questo è un dato reale), quindi, sognò lo stato corporativo. Insomma la storia è sempre piena di contraddizioni; il problema è quello di non inquadrarla in uno schema e cogliere, invece, gli elementi dialettici, che, ogni volta, si presentano, si scontrano e portano a determinati risultati.
– La storia, quindi, si indirizza in un modo o in un altro, anche a seconda dell’intelligenza e delle capacità degli uomini. Esiste la possibilità di interpretare la storia, ragionando dal punto di vista del “ se fosse andata diversamente”?
– Non si fa la storia con i ‘se’ e con i ‘ma’. Però, giocando con i ‘se’ e con i ‘ma’, si riesce a capire quali siano state le responsabilità degli uomini. Nell’ottobre del 1922, per esempio, se si fosse fatto lo stato d’assedio, come sarebbero andate a finire le cose? Poteva scoppiare la guerra civile o i fascisti potevano scomparire rapidamente. E’, questo, un ’se’ col quale non si può fare la storia, ma che aiuta ad identificare le responsabilità politiche della monarchia, per aver fatto quella particolare scelta.
– Tu sei stato politico e storico per tre quarti della tua vita[38]. E’ possibile conciliare il mestiere dello storico con quello del politico?
– Io credo che il politico dovrebbe comunque avere il senso della storia, che, a volte, può anche essere ingannevole e portare a scelte sbagliate. Però, possedere il senso della realtà in cui uno si muove, di ciò che c’è stato prima, sono certo che consente di capire meglio anche il presente. E’ chiaro che la storia non insegna a non fare alcune cose, però la conoscenza della storia dà la sensibilità necessaria – Croce parlava di intellectum- per capire il presente. Da questo punto di vista, quindi, credo che un uomo politico debba avere il senso della storia, intendendo per senso storico una conoscenza della storia e della realtà nella quale egli si muove. E’ anche vero che nella storia bisogna adeguarsi al presente. Molte volte trionfa il realismo politico, che in assenza, però, di questo senso della storia e delle idealità (che non sono mai dei principi astratti), può scadere in una forma di cinismo miope. Di fronte, per esempio, al fenomeno della guerra, il realista politico è quello che, considerato lo stato dei fatti, si assume la responsabilità di fare la guerra. Nella realtà, però, nessuna guerra ha mai risolto alcun problema. Allora il realismo politico diventa cinismo miope, nel senso che non aiuta a capire che certe decisioni, alla fine, producono più male che bene. Una guerra, infatti, non ha mai prodotto risultati positivi. All’epoca della I guerra mondiale, teorici del socialismo, come Kautsky o Jaurès, avevano previsto che si sarebbe andati verso un conflitto disastroso. E, in effetti, ciò accadde perché le diplomazie ed i governi, ignorando il monito, vollero andare ciecamente incontro ad un destino che non risparmiò nessuno.
– Si può parlare di fatalità nella storia?
– Il fato è sempre provocato dalle attività degli uomini. Io personalmente non credo- ma in assoluto non è nemmeno dimostrabile- che ci sia un essere superiore, che determini le volontà umane. Allora bisogna pensare che la fatalità diventa tale nel momento in cui sono state fatte scelte sbagliate. E’ fatale che la devastazione dell’ambiente porta alla fine dell’umanità. Non è il padreterno che l’ha deciso; sono le scelte degli uomini, che rendono inevitabili certe cose, che, poi, sono individuate come responsabilità del fato.
– Sia la storia che la politica devono aiutare anche a fare delle domande. Quanto ha influito la sinistra perché si creasse una situazione come quella che stiamo vivendo?
– Certo c’è stato un processo di sclerotizzazione dei partiti, sono invecchiate le loro macchine. Ed oggi la crisi in cui si dibattono i partiti è terribile. Non c’è più nessuna educazione politica; c’è la spoliticizzazione di massa, che deriva da una crisi di cultura politica e da un cattivo ricambio della classe dirigente. Il PSI ha avuto sicuramente questo destino; ma anche il PCI, che era di ben altra robustezza, non è finito meglio. E’ colpa del mutamento di costumi, della società e, come già detto, della rottura della continuità nei partiti. Il passaggio dalla vecchia alla nuova classe dirigente è avvenuto in modo traumatico. Tanti personaggi vecchi, ma con capacità ed esperienza, sono stati espunti. Tanti giovani incolti, impreparati, senza esperienza si sono impadroniti delle reti del comando ed hanno cominciato anche a teorizzare. Basti osservare quello che è avvenuto tra i socialisti ed i comunisti. I padri del socialismo rispondevano ai nomi di Turati, Nenni e Saragat; poi si è passati a Craxi e Signorile e, quindi, a Boselli. In casa comunista, invece, da Gramsci e Togliatti si è passati ad Occhetto e, poi, a D’Alema e Veltroni. I più giovani hanno fatto cose inaudite, non hanno guardato avanti, si sono fermati a considerare il contingente e il quotidiano. Un politico deve pensare che l’atto che compie oggi avrà dei risultati domani e si deve, perciò, chiedere cosa succederà il giorno dopo, il suo deve essere uno sguardo a trecentosessanta gradi e in prospettiva. Questo ragionamento non lo ha fatto e non lo fa nessuno degli “homines novi”. Tutti giocano a fare i furbi. Così si cerca l’accordo con Berlusconi per la Bicamerale, sapendo già di volerlo fregare; si modifica, in peggio, la legge elettorale; si procede alla lottizzazione più becera per ogni carica ed ogni incarico”.
– Sarà stato questo modo di operare a battezzare la nascita di tante liste civiche?
– Bhe! Una volta i candidati venivano selezionati dai partiti e dovevano rispondere del loro operato ai partiti. Oggi si è in presenza di varie compagnie ventura: nessuno, per esempio, sa più chi è il suo deputato di collegio. E, poi, la nuova legge elettorale: non si può fare il sindaco per più di due consiliature di seguito. E’ assurdo! Se si trova un buon sindaco, perché non può restare? Non è facile trovare un buon sindaco. Gli avventurieri pensano che tutti possano fare i sindaci o i ministri. Una volta c’era una certa selezione. Non si poteva essere nominati sottosegretari senza avere alle spalle almeno due legislature. Ciò garantiva sulla conoscenza della macchina burocratica, sulle capacità relazionali, sull’immobilismo e sull’ignoranza. Oggi molti politici sono dei dilettanti anche improvvisati. Allora, per contrastare questi mali, nascono le liste ‘fai da te’, che molto spesso rappresentano un rimedio peggiore del male.
– Quando si parla di antifascismo, il pensiero corre immediatamente a Giacomo Matteotti. Però la maggior parte dei confinati, dei clandestini –stando a letture e testimonianze- erano tutti comunisti. La conclusione sembra essere che il PSI, al di là del nome dell’immenso martire, non abbia troppa cittadinanza in quella lotta. Eppure i socialisti hanno dato molto in quel periodo, ma ne sono usciti, quasi sempre, con un riconoscimento minimo, che è associato, per altro, a “Giustizia e Libertà”. I comunisti, invece, fanno la parte del leone. Come mai?
– Bisogna considerare che il partito socialista è la formazione politica che è uscita più sconvolta dalla crisi del primo dopoguerra. Infatti, nel ’21, se ne vanno i comunisti; poi, nel ’22, il PSI subisce la seconda scissione, quella tra massimalisti e riformisti. Ed ogni volta sono larghi strati che si disperdono. Quindi, il PSI è il partito che più risente della crisi. Il PCI, ovviamente, nascendo come partito nuovo, con nuove formule organizzative, è più adeguato alla cospirazione e alla clandestinità e, quindi, appare anche più presente nell’occupazione degli spazi.
– Però, rinforzo la domanda, molti uomini di punta della lotta al fascismo sono socialisti; eppure, alla fine, sembra che la lotta sia stata sostenuta, se non del tutta, in larga parte, solo dai comunisti.
– Il gruppo dirigente socialista, morto Matteotti, è un gruppo di vecchi. Ci sono Turati, Treves, Modigliani, che hanno già molti anni; mentre gli uomini nuovi, Saragat e Nenni, sono impegnati a ricostruire l’unità del partito in Francia. Poi, il PSI è anche meno attrezzato per il tipo di lotta richiesta, sia dal punto di vista organizzativo, sia da quello dell’apparato che la sostiene. Non bisogna dimenticare, infatti, che i comunisti hanno alle spalle l’Internazionale comunista e la Russia. Tutto per loro è più facile: dalla preparazione dei documenti falsi ai mezzi a disposizione ai rivoluzionari professionali. Sembra niente! Per di più, poi, tutto l’ambiente socialista europeo, pur essendo antifascista, non è attrezzato alla lotta cospirativa. I socialisti europei sono quelli che più hanno risentito della caduta della socialdemocrazia tedesca ed austriaca. I comunisti, invece, hanno avuto un’unità di direzione, che è diventata sempre più ferrea col passar degli anni.
– Giustizia e Libertà”, invece?
– Giustizia e Libertà” è un caso a parte. Lì ci sono socialisti eretici, come Carlo Rosselli e compagni, che sono giovani e si attrezzano a combattere il fascismo in modo diverso, sia sotto il profilo tecnico che cospirativo. Essi fanno imprese dimostrative clamorose: il volo di Bassanesi[39] o la diffusione di volantini. Poi si avvalgono della presenza di un trascinatore come Rosselli e dell’opera di Vittorio Foa, e i due coinvolgenti compagni, insieme, riescono a raccogliere l’adesione di tanti giovani intellettuali. E quando scoppia l’insurrezione, “Giustizia e Libertà” riscuote ancora più adesioni, perché quegli intellettuali emanano un fascino particolare, per la varietà delle posizioni che rappresentano e che vanno da quelle liberali a quelle estremiste.
– In questi ultimi tempi ci troviamo in presenza di una trasformazione ideologica, progressiva, della destra, c’è una presa di distanza da alcuni comportamenti, almeno nelle dichiarazioni, e da alcuni punti fermi della tradizione politica di destra. Si può dire, invece, che la prima revisione ideologica della sinistra abbia avuto inizio con la svolta di Salerno?
– Non direi, perché i socialisti non hanno da fare revisioni ideologiche, in quanto non sono legati alla tradizione della III Internazionale. Essi, già nel congresso dell’unificazione del 1930, presentano elementi nuovi anche sul piano dottrinale. Rosselli dedica i suoi ultimi scritti all’unione politica del proletariato italiano; frattanto in “Giustizia e Libertà” confluiscono personaggi notevoli come Altiero Spinelli, Leo Valiani e Riccardo Lombardi.
– Però, in un discorso di insieme della sinistra, bisogna dire che, almeno tra le forze comuniste, c’è un tentativo, ed anche marcato, di revisione.
– Sì, è una revisione notevole, che non mette, però, in discussione i dogmi del partito-guida e dello stato-guida. E’ una revisione che permette, in retrospettiva, di spiegare la strategia del PCI. Per Togliatti, infatti, la parola d’ordine è di aderire a tutte le pieghe della storia nazionale e, quindi, estendersi, in tutte le direzioni: amnistia ai fascisti, articolo 7, riconoscimento della monarchia. Egli aderisce veramente con spregiudicatezza alla realtà nazionale.
– Sembra che, dopo gli esaltanti giorni della Resistenza, venga meno ogni idea rivoluzionaria da parte della sinistra.
– A volte nel PSI ci sono state posizioni più estreme che nel PCI, nel bene e nel male. I socialisti hanno premuto molto di più per la Repubblica; i comunisti, invece, hanno perseguito la strategia della conquista delle posizioni di potere. Non hanno mai puntato, però, alla conquista del potere! Perché essi sapevano di appartenere ad un’area ben determinata e, quando scoppia la “guerra fredda”, sanno di essere tagliati dalla partecipazione diretta al governo.
– Questa interpretazione della revisione, allora, spiega anche l’accettazione della continuità dello stato liberale, piuttosto che la costruzione di quello lasciato intravedere dalla Resistenza.
– Il Partito d’Azione ed in parte i socialisti erano per la rivoluzione democratica (non socialista) in Italia: cambiare radicalmente non solo l’istituzione ma l’intera struttura dello Stato. I comunisti, invece, erano meno impegnati in questa prospettiva e più interessati a radicarsi nel paese.
– E’ stato un errore di Togliatti pensare che, con la dittatura, dovesse andar via anche la dinastia reale, che gli aveva dato forza?
– No. Quella dei Savoia era stata una dinastia complice necessaria. Senza il re, Mussolini non avrebbe potuto fare niente. Il partito comunista non accettò la monarchia, come formula istituzionale, ma ritenne che, in quel momento, l’unità nazionale era necessaria anche col contributo dei monarchici, ormai staccati dal partito fascista.
– La cultura, in genere, è di sinistra?
– Una volta c’era un rapporto assai stretto tra la cultura e i partiti; oggi, invece, politicamente, la cultura non è più rappresentata, né a destra né a sinistra.
– E gli intellettuali? Qual è il loro ruolo?
– Quello di rimanere, nella misura del possibile, fedeli a se stessi. Non intrupparsi col vincitore di turno, anche se, per ragioni di opportunità ed opportunismo, molti si sentono attratti dal potere da una forza e da un fascino particolari.
– Oggi c’è una dissonanza molto evidente, quando si parla di repubblica. Dopo le lotte storiche, il sangue versato e le energie profuse per costruire l’Italia repubblicana, oggi si declina con distacco e volgarità l’espressione “prima repubblica”, associandola, spesso, all’immagine della repubblica dei partiti. Come fare per ricostruire la Repubblica, intesa come istituzione, punto di riferimento, bene comune da difendere, insomma, res publica?
– E’ innegabile che nella recente storia d’Italia c’è stato, e fortissimo, uno stacco deleterio: il passaggio dalla repubblica dei partiti a quella dei notabili. Io credo, però, che andrebbe fatta una rivalutazione –critica quanto si vuole- ed un’interpretazione storica seria di quella che è stata la funzione dei partiti in Italia. Perché non è pensabile tramandare l’idea che i partiti siano stati creati per rubare! Bisogna rimarcare che nel momento in cui c’è stato, infatti, il crollo di tutte le istituzioni, con il re che scappava, con Badoglio che non sapeva cosa fare, con lo stato in pezzi, i partiti- rappresentanti delle componenti storiche italiane- sono stati quelli che hanno garantito la tenuta del paese ed assicurato l’iniziativa della riscossa. La Resistenza, l’elaborazione della Carta costituzionale, la ricostruzione del paese è stata garantita dai partiti. E gli uomini che militavano in quei partiti, dal punto di vista della moralità, erano e sono al di sopra di ogni critica; De Gasperi, La Malfa, Togliatti e Nenni, tanto per citarne qualcuno, non erano degli avventurieri politici né dei ladri. Essi hanno fatto politica senza perseguire interessi personali, con grande senso di responsabilità, diventando classe dirigente di un paese appena uscito dalla guerra, ancora al centro di scontri frontali e, successivamente, nella morsa della guerra fredda.
Che ci sia stato un processo degenerativo dei partiti, questo è vero. Però, bisogna anche dire che, scomparsi i partiti, la degenerazione non è finita. Oggi si ruba come prima e, forse, più di prima! E’ vero, invece, che non c’è più una volontà politica determinata. C’è solo Berlusconi, grande demagogo, che governa nell’interesse personale, in modo molto palese, forzando le leggi a suo favore e interpretando la politica con le logiche dell’azienda. Ecco perché c’è il degrado della politica, che si ripercuote sulla vita di tutto il paese. E, per onestà, bisogna aggiungere che, nel processo di degenerazione della politica, una parte considerevole di responsabilità è a carico della cosiddetta società civile. Infatti, basta riflettere un momento: la corruzione è partita proprio da lì! E ognuno di noi, credo, può raccontare di pressioni subite da “persone perbene”, al fine di godere di un privilegio personale, magari a danno di tutta la comunità.
– Possiamo tentare un bilancio del primo centrosinistra, tenendo conto dei fattori negativi e positivi, che lo hanno contraddistinto?
– Il primo centrosinistra, se si pensa a quello che voleva ottenere, è stato una sorta di fallimento, perché non ha provocato quella trasformazione politico-sociale, che aveva tanto teorizzato Lombardi. E’ mancato il cambiamento della società, quello che scaturisce da una seria politica riformista, come la intendevano i vecchi socialisti, quello che introduce elementi nuovi nelle istituzioni e nel paese. E’ anche vero che, all’epoca, ci sono stati ostacoli insuperabili come, ad esempio, le lotte interne alla DC –partito composito, con resistenze marcatamente conservatrici -, l’ostilità dei grandi gruppi economici – le cosiddette fughe dei capitali all’estero, la “contingenza”, che imponeva la rinuncia al programma – e, poi, le opposizioni occulte, interne ed internazionali (caso De Lorenzo e colpo di Stato, presidenza Segni, forte presenza ed ingerenza americana in Italia). Certo, ci sono state anche conquiste significative: un innegabile cambiamento del clima politico generale, con conseguente vantaggio anche del PCI, che, pur oppositore del centrosinistra, ha avuto la possibilità di inserirsi, per la prima volta, nei circuiti delle istituzioni europee. Poi, ci sono state le conquiste civili del divorzio (legge Fortuna/Baslini, con comunisti piuttosto riluttanti), dell’aborto, dello statuto dei lavoratori, della riforma della scuola. E non è da sottovalutare il rinnovamento che fu introdotto nell’ordine pubblico, con la restituzione ai cittadini di un paese democratico. Sono tutte esperienze che non si possono negare, specie per i benefici apportati. Come, purtroppo, non si possono negare gli aspetti deteriori dovuti alla corsa alle lottizzazioni delle cariche ed ai finanziamenti occulti (che, in qualche misura, ci sono sempre stati.
– La prima formula di centrosinistra è uguale o diversa da quella, che, poi, sarà definita del compromesso storico?
– Indubbiamente diversa.
– Sciascia, ne “Il Contesto”, dice che il compromesso storico di Berlinguer è “ la metafora letteraria della desertificazione ideologica e morale, in cui la verità della rivoluzione, in Italia, si avvia alla definitiva sconfitta, a vantaggio di un potere mostruoso, che mette tutto e tutti insieme, intesse tutto. Assimila tutto. Anche l’opposizione, anche la contestazione”. Ti ritrovi in queste parole?
– Credo che sia una definizione esagerata. Però, credo che il compromesso storico ha comportato – questo sì! – un offuscamento delle identità storiche delle grandi forze del paese.
– Lavorare ad un disegno condiviso, maggioranza e minoranza insieme, è sempre consociativismo? Il compromesso storico, in altre parole, era consociativismo?
-Quando si lavora insieme ad un progetto, nella mentalità corrente, è vero, si parla di consociativismo. Però il compromesso storico era un’altra cosa; era un disegno condiviso dai partiti, nato dalla preoccupazione, dalla paura che in Italia ci potesse essere un’involuzione autoritaria, tipo Cile. Questo stato di fatti dette la spinta ad una sorta di revisione ideologica. Nel PCI, poi, c’era sempre stata questa componente, che portava l’attenzione, soprattutto, ai cattolici, scavalcando il PSI. Quando si ruppe l’unità d’azione della sinistra ed ogni partito impostò la sua politica in modo autonomo, i socialisti collaborarono con i democristiani, mentre i comunisti cercarono di scavalcarli con questa formula del compromesso storico. Che era una formula in sé fragile; infatti, poi, non ebbe una lunga vita. Craxi, che intuì subito la contraddizione della formula, nell’attesa che quella politica si esaurisse, si mise a provocare a destra e a sinistra con molta abilità, anche per accelerarne la fine.
– Si può dire che questa formula fosse un’altra tappa della revisione politica a sinistra? C’era chi pensava ad una nuova sinistra?
– Sì, in effetti, Berlinguer era diffidente nei confronti dei socialisti. In particolare, poi, la condotta di Craxi fece precipitare le cose, contribuendo a creare, deliberatamente, una situazione di attrito tra i due partiti della sinistra.
– Nella visione di Berlinguer il PCI doveva essere trainante nella costruzione di una nuova sinistra. La prematura morte del leader comunista frenò questo processo di costruzione a sinistra ed azzerò di fatti, anche per la precedente morte di Moro, la politica del compromesso storico. Ti ritrovi con questa analisi?
– Certo, perché era un disegno difficile, perché la DC era un partito fatto di realtà troppe diverse, per poter reggere una politica di questo tipo. La formula del compromesso storico, poi, fu osteggiato anche all’interno della DC. I democristiani, infatti, avevano dei limiti insuperabili, oltre i quali non potevano andare. E lo stesso Moro lo sapeva bene.
– Nelle forze di sinistra, tra comunisti e socialisti, chi è stato più miope nei confronti della trasformazione della società?
– Il PSI ha avuto sempre delle intuizioni politiche, prima e meglio del PCI. A parte l’errore, ovviamente, commesso con il Fronte Popolare e con il modo con il quale si praticò la politica frontista, quella di vera appiattimento sulle posizioni comuniste. Già, nel 1956, all’epoca dell’occupazione della Cecoslovacchia da parte della Russia, a differenza dei vecchi capi comunisti, Nenni capì subito che si era chiusa una fase, che un ciclo storico aperto dalla rivoluzione di ottobre si era esaurito. Si trattava di capire che la società era più avanzata di quanto lo ritenessero i comunisti italiani. Anche sul divorzio, come già ho detto, il PCI fu riluttante. Sull’aborto, invece, prima di arrivare al referendum, i comunisti cercarono di far leva sul PSI, per ottenere una modifica della legge, così come chiedevano i democristiani, ma trovarono la ferma opposizione di Nenni. Lo stesso Craxi, poi, nel bene e nel male, ha capito che il vecchio sistema era in crisi, che lo stesso partito, da lui sfrondato dei “rami secchi”, necessitava di trasformarsi. Il rammarico è che l’ha trasformato male! Il suo complesso napoleonico gli ha fatto scambiare i collaboratori per servi.
– Oggi, in politica, ha ancora senso parlare di destra e di sinistra?
– Direi di sì, proprio di fronte a problemi di cui abbiamo discusso. Quando si vuole ridurre a considerare lo Stato come un’azienda, significa, a mio avviso, assumere una posizione di destra. E chi si rifiuta di subire questo scempio è, comunque, di sinistra. Chi vuole lasciare autonomia alla scuola, alla magistratura, agli organi dello Stato è di sinistra, perché rifiuta proprio la concezione dello Stato-azienda. Che, oggi, significa anche un arretramento rispetto allo stato-etico di Gentile, che aveva in mente solo l’interesse nazionale. A differenza degli attuali governanti che -e lo dicono anche- badano agli interessi dei gruppi economici dominanti.
– Può essere questa una spiegazione del perché c’è quasi sempre crisi nei partiti di sinistra e quasi mai in quelli di destra?
– Sì, loro –quelli di destra- hanno, infatti, dei riferimenti ben precisi; loro fanno marciare la macchina economica, che, lasciando stare la buona o la cattiva fede, resta il loro obiettivo principale. Ragion per cui, l’interesse della società, quello generale, viene dopo. Quindi, in questa logica, ogni tipo di politica che porta esclusivi vantaggi economici è vincente.
– Che significa, oggi, essere socialista?. E perché, detto da un vecchio militante di partito, bisognerebbe essere socialisti nella nostra società?
– Al di là delle nostalgie e delle passioni personali, credo che, quello che resta della dottrina socialista, è proprio questa visione dello sviluppo della società. Perché ad un certo punto si creano delle contraddizioni, che, poi, diventano esplosive, e, se non si interviene in tempo, sono solo disastri. I vecchi teorici del socialismo lo avevano capito con la guerra, la prima guerra mondiale, quando previdero che l’evento bellico stava per scoppiare e che avrebbe portato alla distruzione di una civiltà. Nel mondo di oggi ci sono, purtroppo, tendenze che, se non contrastate in tempo, porteranno ad una catastrofe. Le città sono diventate invivibili, la società è sempre più degradata, la delinquenza è diventata fenomeno di massa, l’aria è irrespirabile, mancano le risorse idriche. C’è, poi, il problema dell’immigrazione, che è l’aspetto di un fenomeno mondiale. Di fronte a tutti questi problemi, essere socialisti significa affrontare ogni questione e considerarla non solo dal punto di vista dello sviluppo economico – che è il punto di vista che quasi sempre ha generato il male -, ma da quello che mette l’uomo, l’essere umano, in primo piano”.
– Allora tutti dovremmo essere socialisti?
– Sì, perché il socialista è colui che continua a battersi per superare le contraddizioni della società.
– Del secolo XX si sta parlando, com’è ovvio, da parte di tutti. Cosa è stato per te il XX secolo? Un secolo di guerre, di massacri, di rivoluzioni, di cultura, di progresso, di caduta di ideologie?
– E’ una domanda alquanto complessa. Di primo acchito posso rispondere che è stato il secolo breve, così come lo definisce Hobsbawm. Il secolo che comincia con la prima guerra mondiale e si chiude con la caduta dell’impero sovietico. Ed è stato il secolo che col primo conflitto mondiale ha segnato l’inizio di una fase nuova, storica e politica. L’Europa, negli anni tra il 1870 ed il 1914, viveva un lungo periodo di pace, di sviluppo sociale e civile molto forte. I regimi si erano liberalizzati, si erano aperti anche a molte istanze della democrazia, c’era stata la nascita dell’Internazionale Socialista, dei partiti socialisti di tutti i paesi d’Europa. Quindi, si viveva una fase di grande avanzata sociale e politica. Poi la prima guerra mondiale ha distrutto tutto, ha segnato la fine di un’epoca.
Questo è un po’ il punto di partenza. Evidentemente c’erano già degli elementi corrosivi nella società europea, nel suo equilibrio politico, per cui è scoppiata una guerra incredibile. Quindi, la guerra ha generato la rivoluzione russa ed il fascismo. E’ stata la guerra la matrice di questi due fenomeni, che hanno tenuto il campo fino allo scoppio della seconda guerra mondiale. E’ stato una sorta di lungo armistizio, tra il 1918 ed il 1939, in cui si sono preparati gli elementi per lo scoppio della nuova guerra mondiale. Col nuovo evento bellico c’è stata anche l’irruzione delle masse, in maniera nuova, perché la prima civiltà delle masse ancora non aveva raggiunto lo stadio, che poi ha raggiunto. E questo ha comportato anche nuovi metodi di lotta, di organizzazione e propaganda politica. Bisogna dire che i teorici del socialismo, soprattutto in Germania ed in Francia, in considerazione delle trasformazioni avvenute nel sistema capitalistico europeo e mondiale, avevano previsto lo scoppio della guerra. E quando la guerra scoppiò, abbiamo avuto i due fenomeni di cui si è detto. La rivoluzione russa ha avuto, poi, degli effetti formidabili, perché è riuscita a creare un clima nuovo nelle masse popolari, che avevano ritenuto che fosse giunto il momento della fine del sistema capitalistico sociale mondiale, che, prima o poi, sarebbe saltato dappertutto e quindi ne avevano dedotto che bisognava trasformare i partiti socialisti in organizzazione di combattimento, lotta di classe armata e avevano dato loro l’esempio, ritenendo che era saltato in Russia l’anello più debole della catena capitalistica europea, ma che via via sarebbero saltati anche gli altri. Quindi, da questo, ne avevano anche dedotto che bisognava creare in ogni paese dei partiti comunisti con tecniche organizzative nuove e pronte a rispondere ad un programma di insurrezione armata. Questo fatto sconvolse completamente il panorama politico europeo; anche in Italia ci fu la scissione del partito comunista, così come in altri paesi europei, per cui nella crisi del primo dopoguerra, il socialismo si trovò nel pieno del “crac” –come si disse allora- della seconda Internazionale e poi in quella provocata dalle scissioni comuniste. Per cui la pace fu una pace che non ebbe minimamente l’impronta socialista; fu una pace di vendetta, di sopraffazione, dei vincitori sui vinti e fu la pace che poi mise i germi della seconda guerra mondiale. Perché la condizione che fu imposta alla Germania fu quella che rinfocolò tutto il nazionalismo tedesco e dette ad Hitler la possibilità di trovare accoglimento alle sue dottrine. Nazionalismo ad oltranza, che poi diventa addirittura superiorità della razza tedesca, ideologia nazista!
Nel periodo tra le due guerre, poi, le forze che si fronteggiavano attivamente su scala europea, erano il comunismo ed il fascismo. Fascismo, che partì dall’Italia ed arrivò in Germania, Francia, Austria. E questo spiega anche l’involuzione del regime sovietico, da una parte, con lo stalinismo, e dall’altra parte con le adesioni al comunismo, determinate proprio dalla considerazione che contro il fascismo ed il nazismo non c’è nessuna altra forza . Una quantità di personaggi, anche di estrazione liberale, finì con l’aderire al comunismo, dappertutto, anche in Italia. Il primo fu Giorgio Amendola, di estrazione liberale, liberale lui stesso e da giovane anche anticomunista, che ad un certo punto aderì al partito comunista. Egli voleva fare il partito dei ceti medi, che avevano ceduto e quindi non c’era che la classe operaia alla quale potersi affidare il partito della classe operaia era il PCI. Una classe operaia, quindi, disposta ad accettare anche i lati negativi del comunismo, pur di combattere il fascismo. Negli anni successivi, il fenomeno si ripetette, ci furono dei giovani che non erano originariamente comunisti, come Giolitti, come Einaudi: erano i figli dei patriarchi del liberalismo italiano che aderirono al Partito Comunista. Anche all’interno di organizzazioni fasciste, ci fu un fascismo di sinistra, che finì con l’aderire al comunismo. Quindi, ci fu uno sconvolgimento profondo del panorama politico europeo ed italiano. Per non parlare della guerra fredda: 40 anni di contrapposizione frontale, con irrigidimento delle posizioni politiche. In Italia, poi, c’era un partito comunista molto forte, ma che la “conventio ad escludendum” non consentiva di arrivare al potere né di entrare nelle maggioranze di governo. Anche su scala europea il PCI era un po’ al rimorchio, sotto l’egemonia delle forze dell’atlantismo moderato, che faceva capo agli USA. Abbiamo sofferto tutti di questa contrapposizione frontale.
Questo è stato il secolo che ha visto una nuova funzione delle masse organizzate, gregarie ma attive. I fenomeni del fascismo, del nazismo o dello stesso comunismo, infatti, avevano una forte adesione di masse, scatenavano le passioni, le idee, i sentimenti di grandi folle. Quindi, rispetto a quella che era l’Europa pre-bellica, c’è stato un mutamento sostanziale dei moduli di lotta politica, di lotta sociale e di regimi politici.
– A centocinquant’anni dall’unità d’Italia, è ancora valida l’espressione: fatta l’Italia, ora bisogna fare gli Italiani?
– Fare gli Italiani è espressione molto colorita. Quando fu enunciata da D’Azeglio,poneva il problema di un’unità nazionale realizzatasi in modi diversi, a seconda delle circostanze. La coscienza nazionale unitaria era un problema che si poneva soprattutto nei confronti del Mezzogiorno, dove la spinta unitaria era stata più debole che altrove e dove c’era una società di un certo tipo: agricolo-pastorale, semianalfabeta, con redditi bassissimi.
– Non mi sembra, però, che oggi sia cambiato di molto lo scenario di sfondo. C’è, comunque, una differenza tra gli Italiani del nord e quelli del sud, restano i condizionamenti sociali e culturali, che continuano a determinare la differenza. Non a caso, per esempio, molti problemi, dall’evasione scolastica alla disoccupazione, si pongono in modo drammatico al sud più che al nord.
– I fattori storici sono ineliminabili. A questi si aggiungano, poi, quelli geografici e si comprende la differenza. E’ innegabile che l’Italia del nord è meglio collegata –un collegamento culturale, politico ed economico- all’Europa di quanto non lo sia l’Italia del sud!
– E allora, quale è stata l’opera di tanti governi che si sono succeduti? Nessuno chiede di rendere uguale nord e sud, però si può pretendere di migliorare, offrendo una serie di servizi. Bisogna riconoscere che i ritardi derivano dalle deficienze e dalle colpe politiche, che non hanno fatto altro che appesantire i mali del sud.
– La questione meridionale è nata con l’unità d’Italia. Già Cavour si era posto il problema della differenza del Mezzogiorno, attribuendola alla arretratezza degli stessi meridionali. La più grande inchiesta sul Mezzogiorno, quella di Sonnino e Franchetti[40], arrivò alla conclusione che è proprio l’arretratezza dei rapporti sociali ed economici nelle campagne a determinare lo scarto col nord industrializzato. La stessa inchiesta sottolineava che l’agricoltura meridionale viveva dello sfruttamento non della terra ma del lavoratore! I grandi proprietari terrieri del nord avevano un maggiore senso dell’economia, investivano sulla campagna e non si limitavano a vivere solo del loro sfruttamento. I proprietari terrieri del sud, invece, avevano radicata l’abitudine di consumare le rendite e basta; in una sola parola, di sfruttare. Poi c’è stato anche il regime doganale, il protezionismo, che indubbiamente ha molto danneggiato il Mezzogiorno, che ha finito per foraggiare solo l’industria del nord. I capitali, infatti, che si raccolsero in Italia meridionale con le vendite demaniali, andavano, attraverso le banche, a finanziare l’industria settentrionale. Infine, ci sono state anche esperienze storiche diverse. A proposito di “fare gli italiani”, non si dimentichi che al sud è mancata la preziosa esperienza collettiva della Resistenza.
– Questo è un fatto importante?
– Questo è un fatto decisivo”.
– Perché?
– Perché, tutto sommato, lì, nel nord, si è ricreato un clima di unità nazionale, il senso della Patria riscoperta. Perché gli italiani si “erano fatti” nel periodo dell’Italia liberale e sempre con grosso squilibrio tra nord e sud. Durante il fascismo, poi, c’è stata un’unificazione forzata e una disciplina coatta, per cui, a un certo punto, la stessa ideologia, le stesse tecniche organizzative, gli stessi metodi politici erano applicati al nord come al sud. Anche la grande predicazione nazionalistica non ebbe forte presa fra le masse popolari del Mezzogiorno, nel mondo contadino. Poi, pure il fascismo è passato ed il sud non ha espresso una classe dirigente di rilievo: non ci sono stati fascisti di rilievo. Il fascismo, nato in Emilia, il fascismo agrario, nel Mezzogiorno ha generato solo una grande operazione trasformistica, per cui, in presenza di un nuovo indirizzo politico e di governo, la classe dirigente meridionale non ha fatto altro che allinearsi a testa bassa. La mancata esperienza della Resistenza al sud, quindi, ha condizionato fortemente l’esito del referendum istituzionale. E’ vero che ci sono stati moltissimi voti alla monarchia, ma è stato un voto passivo e la Repubblica si è radicata senza grandi contrasti. A parte il caso Lauro, infatti, non c’è mai stata una fronda monarchica del Mezzogiorno. Lo stesso Lauro, a parer mio, è stato solo il protagonista di un’operazione molto spregiudicata: ha sfruttato i residuati di un sentimento monarchico per crearsi un proprio potere. Il laurismo, come fenomeno di massa, non ha mai messo in discussione l’esistenza della Repubblica.
E questo era un atteggiamento molto diffuso tra tutti i sedicenti monarchici. Mi ricordo che una volta, in occasione di una elezione di un Presidente della Repubblica, alcuni giovani protestavano davanti a Montecitorio, reclamando il ritorno della monarchia. Allora alcuni chiesero all’onorevole Covelli, una delle grosse teste del monarchismo meridionale, se fosse stato lui l’organizzatore di quella protesta. E Covelli, quasi offeso, rispose che non era pazzo a pensare una cosa simile; cosa sarebbe stato lui, politicamente, se fosse ritornata la monarchia?
– Oggi, invece, con gli scenari che sono radicalmente cambiati, cosa succede?
– Con il governo Berlusconi, che prende a modello l’azienda, la coscienza politica collettiva è erosa fortemente. Per cui, invece del patriottismo, assistiamo alla crescita dei sentimenti razzisti, xenofobi, di un nord contrapposto al sud. La coscienza nazionale, quella che si era creata negli anni buoni della Repubblica, oggi comincia ad essere corrosa. Il sentimento della solidarietà nazionale, dell’interesse collettivo viene progressivamente meno. Adesso l’interesse è quello dell’azienda, comunque e dovunque operi. Per tutti la parola d’ordine è privatizzazione.
– Si fortifica l’idea della presa del potere come vantaggio personale?
– E’ una concezione generale, non solo un fatto di interessi personali. La coalizione di destra, attualmente al governo, ha una propria filosofia. La convinzione che l’azienda funziona è l’indirizzo che domina su tutto, sul mercato e sul profitto, sulla scuola e sui beni culturali. La privatizzazione dei musei, per esempio, è una concezione nuova, che non ha niente di politico; che erode, anzi, la coscienza nazionale. Ed il grande pericolo è che questa concezione della politica comincia a guadagnare anche qualche strato dell’opposizione.
– Insomma, l’opposizione si adagia, quasi si modella al corpo del governo: la destra e la sinistra si rincorrono, più che confrontarsi?
– Sì e, quindi, si perde la carica”.
– Ma perché? Perché la sinistra, in questo momento, non ha un proprio modello da difendere?
– Sì, perché ha abbandonato quello suo. I comunisti per una ragione; perché è crollato il sistema al quale facevano capo e non hanno fatto in tempo la revisione necessaria della loro storia, della loro tradizione e della loro dottrina. I socialisti, invece, perché hanno pagato il maggior prezzo di tangentopoli; Craxi, che pure aveva delle doti di uomo politico, ad un certo punto si è lasciato prendere la mano, anche lui, da questa concezione della politica, è crollato e non ha avuto più la capacità di reagire.
– Degli altri partiti, manco a parlarne.
– Sì, è vero. Ma la cosa che preoccupa di più è l’atteggiamento dei Democratici di Sinistra, che stanno disperdendo la grande tradizione e la grande eredità del partito comunista. Fa veramente male al cuore vedere i pezzi della storia d’Italia che man mano si perdono.
– C’è una possibilità di rinascere?
– E’ una strada lunga. La gente prima di accorgersi delle cose negative, ce ne mette! Tanto più, poi, che in Italia si vive in regime di monopolio della stampa e dell’informazione. E questa situazione, è lampante, rende difficile anche parlare, avviare un dibattito, generare un confronto.
– Quelli che sono animati da buona volontà – e, fortunatamente ce ne sono ancora e, forse, sono anche in parecchi- cosa possono fare?
– Ritrovarsi, resistere. Quando l’onda è così forte non è che si può arginarla e cambiare l’indirizzo. Bisogna, prima, che molti riescano a prendere atto che si sta andando su una china molto pericolosa. Si sta facendo una politica disastrosa, in tutti i campi: dalla scuola, alle istituzioni, all’ambiente. Personalmente sono proprio contento di aver lasciato l’università: è diventata, negli ultimi anni, una cosa incredibile. Perciò resistere e ritrovarsi: comportarsi secondo le proprie regole, che prima o poi serviranno. Ci vorranno dei punti riferimento, come durante il fascismo. Questo di oggi sta diventando un regime, che rispetta solo alcune libertà formali. Basti pensare all’informazione nelle mani di una sola persona. Stanno intitolando le strade a Mussolini, stanno chiudendo gli istituti della Resistenza, stanno tagliando i fondi comunali. Pure il controllo della cultura resterà in una mano sola. Perciò resistere e ritrovarsi!
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Negli ultimi mesi di vita l’espressione del volto di Gaetano Arfé era diventata ancora più dolce e mite di quanto non lo fosse già stata per il passato. I suoi occhi umidi, attraversati da mille lampi di ricordi e di passioni, penetravano fin dentro l’interlocutore ed erano capaci di leggerne i meandri più riposti, per dare, poi, delle risposte per le quali non c’erano state esplicite domande. Quella mitezza, che dava una certa serenità a chi gli era di fronte, non riusciva, però, a celare un carattere fiero, indomito, addirittura spigoloso, che traspariva dai suoi ragionamenti, dalle sue parole, dai suoi comportamenti. Anzi, quel carattere duro di chi non è abituato a fare sconti nemmeno a se stesso è stato, forse, il tratto caratteristico della sua vita. Una vita vissuta (oggi si direbbe borderline) tra onori ed oneri, vittorie e sconfitte, soddisfazioni (poche) ed amarezze (tante) e chiusa in (quasi) perfetta solitudine.
Naturalmente, chi non manda mai a dire ciò che pensa, chi con dignità e coraggio non si lascia suggestionare dalle ultime “correnti di pensiero”, chi -assorbendo delusioni- fa di ogni amarezza una riflessione propositiva, specie negli ambienti della cultura e della politica, non è sempre ben visto. Per cui, pur riconoscendo ampiezza di vedute e capacità di indagine, spessore di analisi e possesso di strumenti comunicativi, capita -a chi ha speso una vita in tal modo- di non godere dello straripante affetto delle masse né di provocare quel senso di vuoto, che sempre lasciano, invece, le scomparse degli accomodanti, delle cosiddette “brave persone” che tutto hanno fatto per quiete vivere, per non inimicarsi il potere ed i potenti, per godere di vantaggiosi vitalizi.
La verità è che Gaetano Arfé è stato una personalità rilevante ma scomoda; di peso, ma ingombrante in certi ambienti; piacevole da ascoltare –un cantastorie[41]– ma non altrettanto da essere assunta a modello, per il suo rigoroso moralismo e per il suo continuo riferimento ad un irrinunciabile pàntheon storico-politico. Ed allora le folle anonime non l’hanno mai molto amato, come non l’hanno mai molto amato taluni rappresentanti istituzionali (della politica e della cultura) delle stesse folle anonime.
Storia e politica sono stati i termini inscindibili di un binomio, che ha caratterizzato l’intera vita di Arfé. Il mestiere di storico gli ha fatto interpretare quello di politico in un certo modo; ed il mestiere di politico se ne è avvantaggiato, perché egli –Gaetano- possedeva il senso della storia.
Arfè, infatti, educato prima dal padre e poi da altri buoni maestri (Croce su tutti), si era formato in anni in cui ogni ricerca storica era il frutto di tempi lunghi, di pazienza, di rigore metodologico, di indagini su scarse documentazioni, talvolta, difficili (anche) da reperire e (soprattutto) da riprodurre. Nello studio della storia e, maggiormente, nella divulgazione di quella stessa disciplina aveva portato il respiro della vita. Nelle sue analisi, nei suoi studi, nei suoi saggi, nelle sue parole emergevano, innanzitutto, le persone, gli uomini e le donne, le loro idee e le loro idealità, le loro azioni, i loro sentimenti e le loro passioni. Ed era un continuo ricucire il filo della memoria storica, un assiduo scambio tra passato, presente e futuro. Così, la speranza del domani era racchiusa nelle parole della madre di Giacomo Ulivi[42], che -possente come una quercia sulla Piazza Grande di Modena dove il figlio era stato giustiziato- diceva: “la sera guardo il tramonto, perché mi dà la certezza che tornerà l’alba”; l’immagine di un capo-guida-maestro di un gruppo politico era, invece, quella legata alla figura di Filippo Turati, che “non è e non vuole essere un capo. Guida e maestro, egli intende camminare al passo con il movimento, indicando la strada, la “via maestra”, tentando di evitargli errori irreparabili, ma mai pretendendo di operare in suo nome senza una esplicita delega, senza un attivo consenso. La sua leadership non è perciò mai personale, è di gruppo, omogeneo nelle idee e calato nell’azione quotidiana”[43]. E la possibilità di rinascita del Mezzogiorno d’Italia –un tema sempre presente negli studi e nelle ricerche di Arfé- era nella capacità di autoderminazione degli uomini, come sosteneva Salvemini: “la proposta con cui egli chiudeva la prefazione ai suoi scritti di mandare nelle regioni del Sud i migliori docenti italiani, poteva, egli stesso lo riconobbe, sembrare ingenua; ma dietro di essa era la sua fede che dove si seminano idee, dove si insegna con l’esempio l’onestà senza aggettivi, il raccolto non può mancare, perché sempre e solo gli uomini sono i protagonisti della storia”[44].
L’amarezza degli ultimi giorni (ma, forse, sarebbe meglio dire degli ultimi anni) di Arfé era tutta racchiusa nella presa d’atto di un quadro politico, a dir poco, preoccupante. Chi, sin da piccolo, era stato educato ai valori del socialismo, chi da giovane aveva imbracciato la fede dei partigiani per l’affermazione delle libertà, chi per una vita aveva combattuto per la difesa dei valori della democrazia e dell’uguaglianza, si trovava, a conclusione della sua parabola terrena, a dovere accettare, non tanto e non solo una coalizione politica capitanata da un leader immerso da capo a piedi nel conflitto d’interessi, quanto a dovere prendere atto di una sinistra colpevolmente responsabile della creazione di un esercito di “senza storia”, di esclusi, di masse senza tradizioni a cui rifarsi e senza idealità in cui credere. Insomma, di una sinistra cosciente artefice della più grande operazione di trasformismo ideologico, capace di generare il trionfo della furbizia sull’intelligenza politica. Una vera ignominia per chi era stato dentro la storia di (e per) un intero secolo. Ed una vera ignominia per chi, come Arfé, da vero cantastorie, era riuscito ad unire i mondi degli umili (gli anonimi compagni di viaggio, i contadini vesuviani, i militanti di sperdute sezioni socialiste) con gli olimpi degli intellettuali e dei responsabili delle scelte politiche nazionali ed internazionali. E lo aveva fatto con quella sua grande capacità narrativa ed evocativa –e perciò fortemente divulgativa-, che riproponeva e riportava sapori ed odori di immagini fantasmate, memorie del passato, ma stimolava anche ad un impegno continuo nella realtà quotidiana. Non a caso Stefano Pivato in una sua testimonianza ha sottolineato che “a quanti oggi mi chiedono in che modo la storia contemporanea può tornare a “comunicare” alle giovani generazioni, rispondo puntualmente di andarsi a leggere la Storia del socialismo italiano di Gaetano Arfé. È un libro che riesce a coniugare –e a trasmettere- impegno civile e lezione storica”[45].
Nei nostri incontri, spesso, chiedevo ad Arfé cosa significasse, al tempo di oggi, essere socialisti e perché, secondo il suo modo di vedere, bisognasse essere socialisti nella nostra società. La mia domanda era dettata da voglia di sapere, di apprendere, ma anche dalla curiosità di assistere ad un’autodifesa di chi, talvolta, era stato definito, impropriamente, pavido o traditore della causa. Quando, infatti, c’era interesse a dire che Gaetano non era troppo di sinistra, si ricordava che “quando ci fu la scissione di Palazzo Barberini, aveva scelto Saragat ” (come se Saragat fosse stato un uomo di destra!); quando, poi, c’era interesse a frenare il ponte verso la sinistra, c’era sempre qualcuno pronto a ricordare che Gaetano aveva lasciato il partito socialista, si era candidato nelle liste della sinistra indipendente, frequentava ancora amicizie troppo “rivoluzionarie”. Mai che qualcuno avesse evidenziato lo sfregio subito da uno peseudosocialismo e da taluni pseudosocialisti intruppati alla corte di Berlusconi; mai che qualcuno avesse ricordato che, in nome del potere o di arditi calcoli elettorali, alcuni parvenu –inventando nuovi penati, rincorrendo modelli americani e votandosi all’autosufficienza contro ogni cultura dell’aggregazione- avevano abiurato la fede politica nella quale era cresciuto ed alla quale si era abbeverato.
Fino all’ultimo giorno di vita, con scritti e (sempre più rari) interventi pubblici, Gaetano Arfé aveva lottato per la “sua” idea di sinistra. E, per molti aspetti, aveva previsto il risultato delle elezioni politiche della primavera del 2008 e la conseguente dissipazione del patrimonio (non solo elettorale, ma anche culturale, ideologico, valoriale) della sinistra. Egli parlava sempre di questo sconsiderato spostamento dell’asse politico su equilibri di centrismo; si rammaricava che –anche nella fase politica di transizione più delicata (nel 1979, col termine del ciclo sistemico iniziato nel 1948)- il Psi non era stato in grado di diventare un vero partito alternativo agli schieramenti conservatori della Dc né di sottrarsi, con l’acquisto di peso elettorale, all’egemonia comunista. Riproponeva, quindi, l’improvvida autoreferenzialità del Pci, che aveva impedito a molti di quei compagni di cogliere gli innumerevoli mutamenti che si stavano verificando nel mondo e che avrebbero costituito la base del declino del partito comunista. D’altra parte la capacità fagocitatrice del Pci, già al tempo immediatamente successivo alla Resistenza, aveva creato il mito di una storiografia comunista, sventato solo da Arfé per la parte socialista e da Giorgio Spini per il versante azionista. E all’alba del terzo millennio lo stesso errore si era di nuovo verificato col velleitario tentativo di molti fra gli ex comunisti di distruggere la storia socialista, inventandosi una controstoria priva di ogni riferimento alla cultura e sin’anche priva di ogni aggettivazione socialista.
Gaetano, com’era proprio nel suo personaggio e nella sua personalità, era l’emblema di una sinistra scomoda, una sinistra pronta a raccontarsi non per esibirsi, bearsi o glorificarsi ma per dar conto delle cose fatte o non fatte, per un dovere morale, per spiegare (non giustificare!) le posizioni ed i ruoli assunti nei momenti delicati della storia del paese.
L’eretico Arfé, partito giovanissimo dal suo paese natale, Somma Vesuviana, ha sentito, fino al giorno della sua morte, il dovere di partecipare alla vita del Paese con impegno continuo ed altrettanto tormento; perché una vera militanza politica, anzi, una militanza politica seria non si compone mai di scelte facili ed è costruita di rigore ideale e morale (il suo esempio più costante è stato, non a caso, Pietro Nenni).
Il suo impegno ha avuto un nome: socialismo, che non è mai stato sinonimo di sogno, di utopia ma, bensì, di costruzione di un nuovo ordine sociale, che richiedeva, necessariamente, una solida tensione ideale, una lucida visione del percorso ed una decisa volontà di superare gli ostacoli. E proprio nella certosina preparazione di un nuovo ordine sociale, Arfé è stato il politico che si è avvalso delle conoscenze e delle metodologie dello storico, ispirandosi ad un fine ultimo, che non ha mai avuto l’obiettivo del potere ma solo quello della trasformazione del sistema.
So che –se per un improbabile paradosso, avessi potuto dirgli in anticipo quale sarebbe stata la mia intenzione il giorno dopo la sua morte (raccogliere testimonianze, ricordi, riflessioni appunto)- Gaetano avrebbe cercato di dissuadermi, anche se, in fondo, gli avrebbe fatto piacere. Nelle ultime conversazioni lamentava la solitudine, lo scempio delle amicizie, il ricordo di antiche stagioni vissute sempre in difesa dei diritti e delle libertà degli uomini. Negli ultimi tempi abbiamo parlato molto a lungo, seduti nel salotto di casa sua o al telefono, ogni giorno. Conservo tantissimi ricordi ed insegnamenti di Gaetano. Uno – e sento ancora la sua voce pastosa- su tutti: “Non dobbiamo mai vergognarci del nostro passato. Anzi, da esso dobbiamo avere la capacità di trarre tutto ciò che c’è di nobile, glorioso, utile e fecondo, per migliorare quanto ogni giorno andiamo ad intraprendere”.
Un modo innovativo e stimolante per fare politica ed anche per essere maestro.
Ciro Raia
[1] Raffaele Arfé (Napoli,1884-1956) era figlio di Gaetano, pittore e professore di calligrafia, vecchio repubblicano. Raffaele, dopo aver conseguito il diploma magistrale, si era iscritto all’Istituto Orientale, nel capoluogo partenopeo, dove aveva privilegiato lo studio delle lingue levantine, tra cui l’arabo ed il russo. Aveva tradotto e pubblicato “L’orso gendarme”- una commedia persiana del primo Ottocento-, lavoro per il quale si era guadagnato l’apprezzata attenzione di Italo Pizzi, un iranista fra i più illustri dell’epoca. Le lingue erano state la sua vera passione: nei suoi lavori, infatti, non erano mancati studi dal tedesco e traduzioni di fiabe, dal francese, per il suo unico figliolo, Gaetano, nato, nel 1925, dall’unione con Maddalena Maffezzoli, maestra nella scuola elementare. ⇑
[2] Gaetano Arfé, Prefazione a Donato Catapano, Il manicomio era il mio destino, Liguori, Napoli, 2001.⇑
[3] “ Sì, è possibile che in quel periodo ci siamo conosciuti io ed Arfé. Infatti, il ricordo risale al tempo della mia prima attività politica in sedi pubbliche. E, sicuramente, prima che con me, Gaetano ha avuto rapporti con Gerardo Chiaromonte. Molto vicini, poi, siamo stati all’epoca dell’esperienza del “Gruppo Gramsci”, che in seguito ad una traumatica vicenda di contrasto col PCI, concluse drammaticamente –anche per l’abbandono di Piegari- le sue attività. Il rapporto con Gaetano, fatto di confronto su idee, divenne, poi, sempre più fitto nei decenni successivi. Anche se, per la verità, quando nacque il Movimento per la Rinascita del Mezzogiorno, a forte presenza socialista, egli non partecipò in primo piano”, intervista di Ciro Raia a Giorgio Napolitano, 2002. ⇑
[4] Arfé conservava il vago ricordo di avere avuto tra le mani una traduzione del Che fare? di Lenin, edito da vedova Ceccoli e figli. Sempre nella sfera dei ricordi si collocava la sensazione che Ceccoli avesse lasciato il partito comunista dopo il patto Ribbentrop-Molotov. ⇑
[5] Gaetano Arfé, Croce visto da vicino, Il Giorno, 4 gennaio 1978. ⇑
[6] Poeta vesuviano (1900- 1960), di radicate idee socialiste, tra i fondatori, a Somma Vesuviana, del Partito d’Azione e del Partito Socialista. Alla caduta del fascismo fu chiamato nel C.L.N. di Salerno. ⇑
[7] Gaetano Arfé, Autobiografia di uno storico.in Italia Contemporanea, n. 225, dicembre 2001,Carocci Editore. ⇑
[8] De Martino ottenne l’immediato rilascio, “mentre Romita, ministro dell’Interno – fu un’opera, la sua, in quei drammatici mesi, di decisiva importanza- interveniva sulle autorità locali, per una corretta condotta dell’inchiesta”, G. Arfé, La sinistra meridionale nel dopoguerra, in La città Nuova, Gaetano Macchiaroli Editore, Napoli, anno V, n.1/90. ⇑
[9] Ciro Raia, Summana, n.19/1990. ⇑
[10] Gaetano Arfé, L’impegno nella politica, in Dedicato a Vera, a cura dell’Istituto Campano per la Storia della Resistenza, Napoli , 1996. ⇑
[11] Nel partito che era nato a palazzo Barberini c’era di tutto, dai vecchi riformisti turatiani fino ai trotzskisti autentici (Livio Maitan) e trotziskisti convertiti (Giorgio Ruffolo, Rino Formica). E, poi, c’erano Mario Zagari e Leo Solari, che provenivano dal gruppo di Colorni, un socialista di sinistra, un autonomista, che progettava una federazione europea, che avesse buoni rapporti con l’URSS, ma che mantenesse, comunque, la propria autonomia politica. “Io ero vicino a questo gruppo, che, dopo la morte di Colorni, si riconosceva nella leadership di Leo Solari e Mario Zagari. Ma il partito di Saragat ebbe una vita assai diversa da quella ipotizzata; cominciò, infatti, ad assumere delle caratteristiche abbastanza ambigue, per cui, nel 1948, dopo solo un anno, insieme a molti altri giovani – ma anche ad alcuni anziani- me ne uscii. Alcuni divennero trotzskisti, altri entrarono nel PCI, io, dopo poco tempo, rientrai nel PSI. Questa fu la mia prima tormentata esperienza nel partito socialista. Riconosco, però, che le decisioni non erano facili, che ognuna delle parti aveva le sue ragioni non liquidabili con giudizi sommari”, intervista ad Arfè a cura di Ciro Raia. ⇑
[12] Gaetano Arfé, Croce visto da vicino, Il Giorno, 4 gennaio 1978. ⇑
[13] Gaetano Arfé, Autobiografia di uno storico. Cit. ⇑
[14] Dei tempi del “Gruppo Gramsci” Ermanno Rea rammenta: “Il mio ricordo di Arfé è tutto all’interno del “Gruppo Gramsci”. Mi ricordo, soprattutto, quel suo sguardo mite e comprensivo, il suo sorriso; nonché la sua intelligenza, una intelligenza calma. Sottolineo questi elementi, perché quello era un momento di grande agitazione. Noi eravamo iscritti al PCI, lui, invece, era un socialista. All’interno del gruppo, Arfé non occupava un ruolo di primo piano, semplicemente, beninteso, perché egli era un po’ distaccato dalle battaglie che furono sostenute allora. Ed era, comunque, uno dei personaggi di maggiore spicco in un gruppo la cui importanza, al di là delle posizioni assunte dai singoli, va valutata positivamente, perché, nella prima metà degli anni ‘50 riuscì a rivisitare la cultura di sinistra, in un momento di piatto conformismo, introducendo elementi di forte dialettica. Arfé rappresentava, almeno per quello che ricordo io, il polo più liberale ed anche più cauto di quel gruppo, alieno dai massimalismi ideologici”. Gerardo Marotta, invece, ricorda “Con Gaetano Arfé ci siamo conosciuti proprio negli anni del “Gruppo Gramsci”. All’epoca, ogni settimana, si tenevano seminari all’Università di Napoli ed Arfé era tra i relatori più prestigiosi, più vivaci, più intelligenti, più strettamente legato a Guido Piegari. Quando, poi, per le note vicende, cessarono le sessioni del “Gruppo Gramsci”, Gaetano fece la sua strada con i socialisti, riuscendo a produrre cose ammirevoli nel campo della politica e della storiografia. Una cosa posso ricordare con grande piacere e commozione. Mentre tutti noi eravamo impegnati a studiare, per la preparazione di un seminario, i libri di Salvatorelli su pensiero ed azione del Risorgimento, insieme ad altri articoli e pubblicazioni dello stesso Salvatorelli, che erano orientati nel senso della scuola democratica, cioè Mazzini e democratici nel Risorgimento italiano, e tutti noi eravamo infervorati per la scuola democratica, Gaetano mi mise tra le mani “I principi di etica” di Bertrando Spaventa. Fu allora che io, innamorato della filosofia del diritto, approfondendo lo studio di Spaventa, compresi tutta l’importanza del concetto di Stato. E fu anche allora che mi resi conto come un grave problema, per i partiti della sinistra, fosse quello della estinzione dello Stato, contemplato nella dottrina marxista e leninista. Da qui partì, per noi giovani, il confronto con le teorie di Spaventa e di Hegel e in questo ci fu una grande influenza di Gaetano, che ci dette la possibilità di confrontarne le linee”, interviste a cura di Ciro Raia. ⇑
[15] Raccontava il sindacalista Antonio Lombardi (1921-2010) che nel 1951, quando segretario provinciale del PSI era Francesco De Martino e suo vice Pietro Lezzi, “vissi, l’esperienza più importante della mia vita di militante. Infatti, pur essendo ritornato di recente dal corso di formazione sindacale, tenutosi a Rivaltella, Reggio Emilia, ebbi modo, insieme ad altri compagni socialisti, funzionari di partito o impegnati nel sindacato, di seguire alcune interessanti lezioni di storia del movimento operaio e socialista. A tenercele, presso la sede della Federazione in Piazza Dante, era un giovane professore, Gaetano Arfé”. Di quegli anni testimoniava anche Pietro Lezzi, che ricordava di aver conosciuto “Gaetano al suo ritorno dalla lotta partigiana, nei locali della Federazione del PSIUP, allora ospitata nella “Società centrale operaia” (una società di mutuo soccorso) in via Egiziaca a Pizzofalcone. Gaetano si occupava della Federazione Giovanile Socialista e del Gruppo Universitario. Ricordo che frequentava moltissimi coetanei iscritti ad altre formazioni politiche, tra cui Gerardo Marotta, Guido Piegari e Gerardo Chiaromonte. Non abbiamo avuto, all’epoca una forte frequentazione, perché lui era spesso in giro per studio”. Dello stesso periodo testimonia anche Sandro Petriccione: “Sono stato funzionario di partito e l’amicizia con Arfé risale agli inizi degli anni ’50, quando Gaetano ed Anna Pagliuca, allora fidanzati, venivano alla sede del Comitato Regionale socialista, dove allora c’era Ugo Minichini. Di lì, poi passavano alla Federazione, in Piazza Dante. Ci siamo visti tantissime volte, compreso il giorno delle loro nozze, quando gli sposi offrirono un piccolo ricevimento proprio in Federazione” (interviste a cura di Ciro Raia). ⇑
[16] Gaetano Arfé, Croce visto da vicino, cit. ⇑
[17] Enrico Berlinguer, “un vero signore, sempre molto cordiale e di fine cultura”. Dopo il convegno di Napoli, “Ci siamo rivisti, in seguito, raramente, e, poi, con maggiore frequenza, negli ultimi suoi anni, nel comune impegno parlamentare europeo. A Strasburgo facevamo lunghe chiacchierate e negli ultimi tempi, poco prima che Enrico venisse a mancare, stavamo lavorando, nel campo della politica europea, ad una proposta unitaria della sinistra italiana. Era un’ipotesi che avevo già discusso con Amendola. Poi la morte di Giorgio e le tribolate vicende interne ne impedirono lo sviluppo. Così, quando si giunse al voto del progetto Spinelli per la libertà politica europea, approfittando dell’intesa realizzatasi tra i rappresentanti della sinistra italiana, io parlai più volte con Berlinguer, per cercare di tradurre in una iniziativa politica comune quella convergenza che si era determinata tra le forze della sinistra italiana. Avevamo anche inventato quelle che allora si chiamavano parole d’ordine: ‘Una sinistra per l’Europa e un’Europa per la sinistra’, nel senso che una sinistra -unita- per l’Europa doveva affrontare i temi di politica europea. Superando i disaccordi esistenti, in taluni paesi, sul terreno dell’unione europea”. L’idea unitaria piacque a Berlinguer che, però, raccomandò di fare attenzione alla reazione di Craxi, il quale, nel momento della possibile convergenza della sinistra, sicuramente si sarebbe mosso per uno scontato boicottaggio. E proprio quanto paventato dall’allora segretario del PCI avvenne. Quando, infatti, l’idea sembrò prendere quota arrivò, inesorabile, il veto di Craxi. “Enrico Berlinguer, purtroppo, era scomparso. Io, a sostegno della nostra idea, feci un appello ai partiti della sinistra che era, in sintesi, la proposta, in prospettiva, di elaborare un programma unico della sinistra italiana, per quanto riguardava la politica europea. Posto, infatti, che a Strasburgo non c’erano le contraddizioni italiane di parte di sinistra al governo e parte all’opposizione, sul terreno europeo si poteva concordare un programma unico, da portare nel sedi del socialismo europeo. Ci furono le adesioni al progetto di socialisti, indipendenti e comunisti, da Enzo Enriques Agnoletti a Pietro Ingrao e a Luciano Lama, da Aldo Aniasi a Rino Formica, Signorile, Tognoli e Didò. Però, a questo punto, proprio come aveva previsto Berlinguer, Craxi prese le distanze, sostenendo che l’iniziativa era prematura ( e perciò troppo impegnativa) ed imponendo a Didò ed a Tognoli di ritirare la firma. Con i fedelissimi del segretario socialista presero le distanze anche i comunisti e l’iniziativa naufragò”. (Gaetano Arfé, conversazione con Ciro Raia, 30 gennaio 2002). ⇑
[18] Gaetano Arfé, Autobiografia di uno storico, cit. ⇑
[19] La Storia dell’Avanti! si compone di due volumi. Il primo, che racconta la storia del giornale fino al 1926, fu stampato nel 1956. Il secondo volume, invece, che allunga il suo sguardo fino al 1940, vide la luce nel 1958. ⇑
[20] Gaetano Arfé, Storia dell’Avanti!, Premessa, edizione 1977. ⇑
[21] Gaetano Arfé, Storia dell’Avanti! ⇑
[22] Gaetano Arfé è stato legato a Nenni, oltre che dalla lunga militanza socialista, da un profondo e sincero rapporto di stima, amicizia ed affetto personale, sopravvissuto alla prova anche delle inevitabili procelle dei dissensi politici. E, da storico, Arfé ha apprezzato particolarmente il fatto che Nenni “ sia stato tra i pochissimi uomini politici capaci di intendere, fino in fondo, le ragioni dell’avversario [quella capacità che lo rendeva immune dal dottrinarismo e dal settarismo, non dalla passione ma dall’odio, e che gli faceva da regola anche nei rapporti interni di partito, in Arfé, Pietro Nenni, una vita per il socialismo, Lacaita, Manduria, 2000], di giudicare in termini storici anche il proprio operato, di storicizzare, si potrebbe dire, se stesso. Ne è conferma, del resto, la tendenza costante in lui a muoversi “sul filo della storia”, a scegliere la propria collocazione in relazione a quelle che gli sembrano essere le tendenze di fondo dei processi politici in atto: ne è conferma quella sua “Storia di quattro anni”, scritta su invito di Gobetti mentre ancora la battaglia contro il fascismo infuriava, rimasta, nel suo genere, tra i classici della storiografia sull’avvento del fascismo, per la sicurezza e la lucidità del giudizio. Questo suo robusto senso della storia dà anche ai suoi scritti giornalistici una inconsueta vastità di respiro, conferisce ad essi quel carattere di originalità che li rende dei modelli di giornalismo militante”. ⇑
[23]La Storia del socialismo italiano, ha avuto anche un’edizione con Mondadori, nel 1977. ⇑
[24]Vittorio Foa, a proposito dell’impegno storico di Arfé, dichiarò:” voglio dire subito che quello che, secondo me, ho sempre trovato nei suoi lavori è la sua capacità di rappresentare, in modo semplice, una vicenda così complessa ed articolata come la storia del socialismo, le sue varie tendenze, le linee democratiche centralizzatrici, autonomistiche, collettivistiche o individualistiche. Quello socialista è un mondo così ricco e così vario, anche con la ricchezza dei suoi personaggi, dei dirigenti ed anche delle sue masse, che Arfé è riuscito a rappresentare in modo semplice e lineare. Direi, in qualche modo, che quella rappresentazione è lo specchio anche della sua personale umanità. Gaetano, infatti, è un uomo limpido, semplice e profondamente umano. Ho pensato, molte volte, leggendo i suoi libri, qual era l’elemento di coesione che teneva insieme questo racconto così ricco, così vario; ed ho concluso che l’unico elemento è la libertà. In fondo, il pensiero di Arfé può affrontare le vicende più complesse e più diverse: nel profondo del suo animo, la sua lettura, è sempre un percorso di libertà”. Giorgio Spini a sua volta aggiunse: ““Egli è stato un grande studioso, di grandi qualità; ha portato nella storiografia italiana quella rivalutazione del socialismo riformista, che gli va tutta ad onore. Noi azionisti guardavamo i socialisti sotto la luce del loro fallimento politico; la storiografia comunista, invece, tendeva a riportare tutto allo schema gramsciano. In questo contesto Gaetano Arfé ha avuto il prezioso merito di saper riaffermare il valore etico-politico-storico di una, effettivamente, grande e vitale esperienza socialista. E’ riuscito, inoltre, a recuperare –laddove nemmeno Pertini e compagni erano riusciti- il valore di una grande esperienza popolare, raccontata nella “Storia dell’Avanti!”. E non è stato da meno con la gloriosa epopea della Resistenza. Col suo attento lavoro di politico e di studioso, inoltre, Arfé è riuscito a ribadire, sottraendosi ad una sorta di ricatto sentimentale, che l’anticomunismo non significava assolutamente fascismo. Quindi, il suo grande merito è stato proprio di arrivare a dare cittadinanza alla grande tradizione socialista. E, quando il PSI si è europeizzato, inoltre, Gaetano, che ha avuto sempre un orientamento internazionale, vi ha contribuito con le idee, la passione, lo studio e l’intelligenza”. ⇑
[25] Gaetano Arfé, La storiografia del movimento socialista in Italia, in Prampolini e il socialismo riformista, Atti del convegno promosso dall’Istituto socialista di studi storici a Reggio Emilia nell’ottobre 1978, vol. I, Roma 1979. ⇑
[26] Gaetano Arfé, Il movimento giovanile socialista. Appunti sul primo periodo:1903-1912, Edizione del Gallo, Milano, 1973 (nuova edizione). ⇑
[27] “Nella mia casa a Parma ho una scrivania enorme, uno di quei tavoli sui quali si possono stendere interi archivi, concepiti apposta per chi è uso lavorare con le carte. Appartenne a Giuseppe Emanuele Modigliani, su di esso fu redatto l’atto di recessione dal procedimento contro gli assassini di Matteotti, voluto dalla vedova e diventato, per mano di Modigliani, un irrevocabile atto di accusa contro il loro mandante. Quel tavolo mi fu lasciato da Vera Modigliani”, in Gaetano Arfé, La figura di Giuseppe Emanuele Modigliani nella storia del socialismo italiano, ESSMOI, Roma, 1983. ⇑
[28] Gaetano Arfé, in Testo della Commemorazione tenuta a Parma nel 10° anniversario della morte di Fernando Santi, 1979. ⇑
[29] Gaetano Arfé, I nostri non possumus, Stabilimenti tipografici Carlo Colombo, Roma, 1976. ⇑
[30] Donatella Cherubini, Prefazione a Gaetano Arfé, I socialisti del mio secolo, Piero Lacaita Editore, Manduria, 2002. ⇑
[31] “Gli chiedono se essere indipendente dentro al PCI voglia dire navigare nell’astrazione in cui sono piombati certi cattolici eletti nella lista comunista. Risponde: “Il paragone non regge. Noi siamo legati dalla stessa radice culturale. Non è Giolitti che oggi fa l’autocritica lasciando il PSI. E’ il PCI che si è spostato sulle posizioni che Giolitti sosteneva trent’anni fa”, Intervista di Maurizio Chierici ad Arfé, in “Arfé l’eretico: i comunisti si sono spostati, non io”, Corriere della Sera del 10 maggio 1987, pagina 2. ⇑
[32] “Perché dopo un quarantennio hai deciso di uscire dal PSI? -Non ho più ripreso la tessera da due anni. Perché ho visto il PSI trasformarsi radicalmente. Al di là del mio dissenso politico, il distacco è nato sul modo di concepire e dirigere il partito, la vita interna, la cultura corrente, la selezione dei quadri, il costume. E’ diventata diversa la sua natura, non c’è più un vero dibattito, riesce difficile collaborare, pur avendone la voglia. Questo PSI è un partito di cui non sai cosa farà domani, la cui linea e i cui comportamenti sono carichi di contraddizioni. ⇑
–Vuoi fare un rapido bilancio della politica di Craxi?-Craxi ha avuto il problema di rinnovare il PSI, di dare basi solide all’autonomia socialista. E’ riuscito bene nell’abbattere i ruderi di un asfissiante regime correntizio e un certo vecchiume culturale e dottrinale. Ha dato al PSI agilità di manovra. Ma ha prodotto uno svuotamento del partito: il “nuovo corso”, man mano, si è deviato. Invece di cercare forme originali di cultura politica, si sono inseguite le suggestioni cangianti delle mode: Proudhon al posto di Marx, Garibaldi al posto di Turati, poi il “lib lab”, poi il “socialismo tricolore”, un arretramento rispetto alla dimensione europea dei problemi attuali del movimento operaio e progressista. Non si è fatta revisione critica del marxismo, piuttosto un’opera di demolizione della tradizione socialista. Il PSI, soprattutto, è rimasto in questi anni schiavo della tattica del momento. Unico disegno si è rivelato, mi pare, quello di conquistare rapidamente posizioni di potere. E il bilancio politico sembra ora fallimentare: nell’orizzonte del pentapartito il PSI può sempre rientrare, se vuole, ma avrà un ruolo subalterno, sarà in una gabbia. Craxi ha creato sì difficoltà alla DC, però in una contesa ristretta all’ambito del potere”(Senza settarismi né rivalse, per l’unità a sinistra, intervista di Marco Sappino a Gaetano Arfé, in l’Unità del 7 maggio 1987, pagina 2. ⇑
[33] Dal giugno del 1987 all’aprile del 1992. ⇑
[34] Arfé è eletto nelle liste del PSI, nel 1972, senatore del collegio di Parma; nel 1976, invece, è eletto deputato del collegio Modena-Reggio-Parma-Piacenza. Nel 1979, sempre per il PSI, è eletto deputato al parlamento europeo nella circoscrizione nord-est. Nel 1987, poi, dopo aver lasciato il PSI per contrasti politici, nelle liste della Sinistra indipendente, è eletto senatore del collegio di Rimini. ⇑
[35] “Il mio interesse per la storia nacque negli anni della mia adolescenza e fu ispirato dalla abissale differenza che notavo tra la storia che ci insegnavano a scuola e quella che intravedevo attraverso i discorsi di mio padre (…), nei quali ricorrevano i nomi di Giacomo Matteotti e di Giovanni Amendola, di Filippo Turati e Camillo Prampolini calati nel contesto del positivismo progressista: il culto della rivoluzione francese, il mito garibaldino, il pacifismo, il libertarismo, l’umanitarismo, finanche, compatibilmente con la cultura dei tempi, i temi dell’ambientalismo e del femminismo. Tutto questo era sincretisticamente associato a una devozione intellettuale profonda a un uomo che si collocava su tutt’altre sponde, Benedetto Croce”, in Gaetano Arfé, dattiloscritto inedito. ⇑
[36] Gaetano Salvemini, Il ministro della malavita e altri scritti sull’Italia giolittiana, a cura di Elio Apih, Feltrinelli, Milano, 1963. ⇑
[37] Giovanni Ansaldo, Il ministro della buona vita, Edizione Le Letture, 2002. ⇑
[38] “Ho praticato per tre quarti della mia vita il mestiere di storico con gli strumenti di un rudimentale artigianato, senza far uso dei questionari, senza ricorrere all’intervista, ma usando il tempo concessomi –assai spesso, nel mio caso, nei tempi morti di interminabili riunioni politiche- per distese e confidenziali conversazioni, in cui i punti salienti venivano registrati su un quadernetto, con un particolare interesse per l’aneddoto, spesso più illuminante –lo avevo appreso alla scuola di Croce- del documento munito dei crismi della ufficialità. Devo anche ammettere che mi son trovato, per questo aspetto, in stato di privilegio, perché lunghi decenni di vita politica e parlamentare mi hanno consentito, fuori di ogni convenzionalità, frequenti e confidenziali rapporti con attori illustri e oscuri, ma non per questo meno interessanti della nostra storia.”, in Gaetano Arfé, dattiloscritto. ⇑
[39] Giovanni Bassanesi, 1905-1947, antifascista. L’11 luglio 1930 volò con un aereo sopra Milano in compagnia del repubblicano Gioacchino Dolci, lanciando circa centomila manifestini, incitanti, con i motti di “Giustizia e Libertà”, alla rivolta antifascista. Fu arrestato sulla strada del ritorno, quando, dopo aver sbarcato Dolci nel Canton Ticino, riprese il volo per la Francia. Il suo aereo, infatti, precipitò sul Gottardo e Bassanesi, ferito, subì l’arresto per violazione della legge elvetica. Nel 1940, quando rientrò in Italia, fu confinato a Ventotene. ⇑
[40] Sidney Sonnino, 1847-1922, più volte ministro e per un breve periodo due volte primo ministro, nel 1927, insieme al deputato Leopoldo Franchetti, 1847-1917, portò a termine un’inchiesta sui contadini meridionali. “La Sicilia nel 1876”, questo il titolo dell’inchiesta, evidenziava, oltre alle condizioni politiche ed amministrative dell’isola, gli aspetti negativi del latifondo, invocando un intervento dello Stato, teso a rendere meno dure le condizioni di vita dei lavoratori della terra. ⇑
[41] “Una trentina d’anni fa, l’amministrazione comunale di Imola mi invitò a ricordare la figura di Andrea Costa, che era stato uno dei pionieri del movimento socialista italiano, una figura romantica, una vita di avventure, di fede e di passione. Nei manifesti, che annunciavano la cerimonia, il mio nome era preceduto dalla qualifica di senatore e seguita da quello di storico. Non avevo scritto il testo, riservandomi di regolarne tempi e accenti sulle reazioni dell’uditorio e, quando finii di parlare, ci fu un vecchio che aveva seguito i funerali di Costa, e il cui padre ne era stato seguace, il quale mi abbracciò e con le lacrime agli occhi mi disse: ”tu non sei uno storico, tu sei un cantastorie”. E’ una confessione che in questa sede mi sento di poter fare, dicendo che è una qualifica che io non ho respinto, della quale, in un certo senso, mi sento orgoglioso perché il mio modo di intendere la storia, il mio interesse per la storia è stato sempre per la storia delle persone, delle donne e degli uomini, dei loro sentimenti, delle loro idee, delle loro passioni, delle loro azioni. Questa è stata la storia che mi ha sempre affascinato, e ho sempre cercato, nelle pagine che ho scritto, di ricostruire l’ethos politico degli attori e dei protagonisti, attenendomi scrupolosamente alle regole del mestiere, evitando ogni forma di faziosità e anche di tendenziosità, cercando ogni volta di mettere in luce, di capire e di far capire i moventi delle loro azioni”, in Gaetano Arfé, Autobiografia di uno storico, cit. ⇑
[42] Giacomo Ulivi (1925-1944), studente universitario, partigiano, fucilato, per rappresaglia, sulla Piazza Grande di Modena la mattina del 10 novembre 1944. ⇑
[43] Gaetano Arfé in Filippo Turati e il socialismo europeo, a cura di M. Degl’Innocenti, Napoli, Guida, 1985. ⇑
[44] Gaetano Salvemini, Movimento socialista e questione meridionale, Milano, Feltrinelli, 1963, Prefazione di G. Arfé. ⇑
[45] Stefano Pivato, Quella grande capacità di saper divulgare la storia, in Per Gaetano Arfé, Testimonianze (a cura di Ciro Raia), Libreria Dante & Descartes, Napoli, 2008. ⇑