Per Barbiana bisognava girare a sinistra. Poi, nei pressi di quella che era stata la canonica, con il grande albero sotto cui s’erano riuniti gli scolari a studiare, avevo lasciato l’automobile. C’era un silenzio ogni tanto interrotto da qualche refolo di vento e da qualche lontano abbaiare di cane. Avevo camminato, per poco tempo, lungo uno stradello sterrato al centro del quale scorreva uno stitico rigagnolo; avevo svoltato di nuovo a sinistra e mi ero trovato di fronte a un piccolo cimitero e ad una minuscola cappella. Al cimitero si accedeva attraversando un cancelletto socchiuso, i cui cardini erano infissi nel muretto di recinzione al luogo sacro. C’erano poche fosse: bastavano le dita delle mani per contarle. Quella di don Lorenzo Milani, il priore di Barbiana, coperta da una lastra di marmo bianco e con a capo una croce anonima, era (fotogrammi di un ricordo) sul lato destra, spoglia come le poche altre. Avanzando verso la cappella, su un piccolo altare c’era incorniciata una foto in bianco e nero di don Lorenzo. Vicino vi era un “registro delle visite” con i pensieri, le riflessioni, i messaggi degli innumerevoli visitatori in “pellegrinaggio” a Barbiana.
In quel momento mi ero sentito come uno che, finalmente, aveva sciolto un voto: emozionato, commosso, felice. Lettera a una professoressa l’avevo letto e riletto. L’avevo discusso. Era stato il punto di riferimento dei miei entusiasmi giovanili, delle mie passioni professionali, dei miei sogni di trasformazione del mondo.
Di Lettera a una professoressa e della scuola di Barbiana, ne avevo avuto notizia, tanti anni prima, dai giornali e dalle polemiche che, l’autore e i destinatari istituzionali del libro, avevano suscitato. Ma, in quell’epoca, ero molto giovane e mi lasciavo più facilmente distrarre dalle note dei Beatles e da quelle dei Giganti. Non sapevo nemmeno bene cosa fosse successo a Valle Giulia; non mi dicevano molto i nomi di Louis Malle o del ministro degli Esteri Pietro Nenni; non mi ero nemmeno appassionato al messaggio della Populorum progressio né alla prima lettura di Cent’anni di solitudine. Sapevo, in compenso, quasi tutto di Altafini e Rivera, mentre al cinema ero tornato già un paio di volte a vedere la Deneuve in Bella di Giorno.
Poi, c’era stato il tuffo negli anni della strategia della tensione. Ed era cambiato tutto. Il mondo, gli interessi, le passioni insieme a noi giovani ormai cresciuti.
Il primo ad avermi parlato in forma diffusa, appassionata ed appassionante, di don Lorenzo Milani e del suo impegno politico-culturale-sociale era stato Nino Pino, un preside, socialista, mio maestro, negli anni diventato, per me figlio unico, il mio fratello maggiore. Nino lo avevo conosciuto alla federazione socialista. Poi, nel 1975, ero stato fortunato ad avere avuto proprio lui come docente al corso di abilitazione all’insegnamento di materie letterarie nella scuola media. Ricordo sempre che il preside Pino si era presentato, il primo giorno, con un borsone da viaggio pieno di libri; aveva detto brevemente di sé e, quindi, tirando fuori i libri, uno a uno, aveva cominciato a parlare, a noi giovani laureati in lettere in attesa di insegnamento, di ognuno di quei volumi, chiedendo se mai li avessimo letti e cosa ne pensassimo: Vittoria Ronchey Figlioli miei, marxisti immaginari, Ivan Illich Descolarizzare la società, Albino Bernardini Un anno a Pietralata, Umberto Eco Apocalittici e integrati…Quando, poi, dal fondo del borsone aveva estratto gli ultimi due libri, aveva detto: “Questi sono gli unici libri risparmiati al rogo del ’68: sono “Il libro rosso dei pensieri” di Mao Tse Tung e “Lettera a una professoressa” di don Lorenzo Milani”. Quindi, continuando a parlare di Barbiana, aveva aggiunto: “Pensate, sulla porta di quella scuola c’era scritto: I care (mi interessa, mi riguarda)”!
Alla fine degli anni ’90 del secolo scorso, interessandomi di educazione degli adulti, avevo conosciuto il professore Cosimo Scaglioso, che era il presidente dell’IRRSAE della Toscana; egli coordinava un gruppo di lavoro nazionale sull’educazione permanente. Professionista solare e di grande disponibilità, Scaglioso girava l’Italia in lungo e in largo, per rinforzare le radici del “suo” progetto F.A.Re (Formazione in età adulta nelle Regioni). Nei dopo cena di lunghe serate passate in giro per l’Italia, Scaglioso era solito parlare di Aldo Capitini o Tommaso Fiore. Poi, immancabilmente, aggiungeva: “Avete letto don Milani? Leggete “Esperienze pastorali”, lì dentro c’è tutto quanto serve per capire l’importanza di educare gli adulti!”. E così anche io, per un paio d’anni, in giro per l’Italia con “Esperienze pastorali” nella valigia, avevo letto, riletto e sottolineato, in modo quasi parossistico, che “La distinzione in classi sociali non si può fare sull’imponibile catastale, ma sui valori culturali”.
A fine primavera 2003, poi, avevo cominciato a lavorare ad un libro su Gaetano Arfé, un mio conterraneo oltre che compagno di scuola di mia madre. Durante l’autunno e l’inverno precedenti alla pubblicazione di quel libro, quasi ogni settimana mi incontravo con Arfé. Lunghe chiacchierate; niente di formale. I ricordi catturati dal registratore, qualche provocazione mia, la voglia di raccontare di Gaetano, un caffé, la pipa del professore che, siccome sembrava non voler tirare, era subito sostituita dall’ennesima sigaretta, marca MS.
Una sera, mentre la condensa si rincorreva in mille gocce sui vetri dello studio, Gaetano mi aveva parlato a lungo di don Milani, il prete eretico. Era stato il priore di Barbiana, infatti, ad aver scritto una lettera ad Arfé –che allora lavorava all’Archivio di Stato di Firenze- in cui gli comunicava che aveva messo su una scuola, in cui si insegnava a scoprire le falsità e le menzogne, propagate attraverso i partiti e la stampa. Don Milani, ritenendo che la storia dovesse avere un ruolo di primo piano nei programmi della scuola di Barbiana, aveva invitato l’allora direttore dell’Avanti! a tenere qualche lezione di storia del socialismo a quei “particolari” alunni. In poco tempo Arfé era riuscito a conquistarsi la fiducia –cosa non facile né scontata- di don Milani, tanto da avere avuto il privilegio di leggere in anteprima il dattiloscritto di “Esperienze pastorali”. Arfé conservava un ricordo vivissimo degli incontri con gli alunni ed il priore di Barbiana: “Erano tutti giovani e quasi tutti operai o contadini. La scuola aveva una disciplina prussiana: i ragazzi, infatti, finita la giornata di lavoro, andavano a scuola, pulivano, tenevano in ordine le stanze e, poi, seguivano le lezioni. Nell’aula non c’era il crocifisso, perché la scuola doveva essere rigorosamente laica. Per chi voleva avvicinarsi alla dottrina cattolica, c’era la canonica, luogo in cui don Lorenzo teneva lezioni di catechismo. Il priore era rigorosissimo in tutto. E non era affatto un prete accomodante. Non coltivava amicizie convenzionali. Le sue relazioni erano in funzione del suo disegno pastorale. In questo aveva la forma mentis del vero rivoluzionario”.
Sono cresciuto e mi sono formato, professionalmente, ispirandomi agli insegnamenti di don Milani. Chissà quante copie di “Lettera a una professoressa” ho regalato! Ogni circostanza era buona –un onomastico, un anniversario, un compleanno- per diffondere quel volume edito dalla Libreria Editrice Fiorentina. Non c’è stata occasione, pubblica o privata, in cui non abbia cercato di parlare di un “prete, che faceva scuola sotto un albero, su una collina del Mugello”. Un vero tormentone, il mio!
Ma erano altri tempi! Tempi di passione, di fede, di abnegazione. Tempi in cui c’era voglia di scagliarsi contro le bocciature, contro la scuola selettiva, contro la dettatura degli appunti, contro la valutazione espressa in voti, a loro volta frantumati in più, meno, mezzo. Una volta Nino Pino, proprio a proposito dei voti frazionati, ironicamente, aveva commentato: –Siamo ormai nella scuola del mediocre e mezzo! Erano tempi in cui i giovani erano più ispirati, partecipativi, rivoluzionari e, perciò, più convinti che, col loro impegno, qualcosa avesse potuto veramente cambiare il mondo. Nonostante le Vestali della classe media (un altro titolo fra quelli citati sempre da Nino Pino!) continuassero a ripetere di quella gioventù, con malcelato disprezzo, che erano figli del ’68! Manco avessero avuto la rogna!
Sin dal primo anno di università, facoltà di lettere, avevo avuto la fortuna di entrare subito in una scuola media, come animatore delle libere attività complementari, le LAC. La mia prima esperienza di insegnamento l’avevo fatta, quindi, in una scuola integrata (così si chiamavano, allora, le scuole che sperimentavano un orario giornaliero di otto ore, con servizio mensa, attività didattiche curriculari ed extracurriculari), la SMS “S. Rosa”, la cui utenza proveniva da Foria, da Forcella, dai Vergini, da Porta San Gennaro ed altri vicoli della suburra napoletana. Gli alunni di quella scuola media, entravano alle otto del mattino ed uscivano alle quattro e mezzo del pomeriggio; in quella scuola studiavano, mangiavano, facevano ricreazione, attività ludiche e complementari. Solo che quella scuola era situata al quinto piano, di un palazzo grigio di otto piani, costruito, forse, per ospitare una struttura ospedaliera poi, adibita a scuola, nella centralissima, rumorosissima, affollatissima, avvelenatissima piazza Cavour. Era stato in quella scuola che mi era toccato, per la prima volta, imbattermi nell’infausto destino di una mia giovanissima alunna. Si chiamava Assunta Basso, era bruna, simpatica, loquace, piena di vita. C’eravamo salutati, come sempre, a fine settimana. Il lunedì, come tutti, incredulo, avevo appreso che Assunta era morta per un attacco di meningite fulminante.
Quando avevo letto “Cara signora, lei di me non ricorderà nemmeno il nome. Ne ha bocciati tanti.”, avevo pensato, immediatamente, a una professoressa – una delle docenti più anziane- della SMS “S.Rosa”. Era severissima, dettava gli appunti e bocciava. Diceva che la scuola doveva essere frequentata solo da chi aveva le capacità (e che significava?); gli incapaci dovevano andare a lavorare. Insomma, proprio come era denunciato nella “Lettera a una professoressa”:”Mandatelo nel campo. Non è adatto per studiare”. A dire il vero, a volte capitava anche –come capita anche oggi- che si bocciava per garantirsi la classe per l’anno successivo. Era un mezzuccio che la scuola adoperava –e adopera- per la propria sopravvivenza.
La SMS “S.Rosa” aveva una platea difficile. Un giorno si era presentato un alunno, che ignorava finanche il nome di battesimo della propria madre. Era stato incoraggiato in tutti i modi possibili; alla fine gli era stato chiesto: “Ma il tuo papà come chiama la mamma?”. Ed egli aveva risposto:”Col fischio”.
Era successo proprio come nel libro di Barbiana: “Voi dite che Pierino del dottore scrive bene. Per forza, parla come voi. Appartiene alla ditta. Invece la lingua che parla e scrive Gianni è quella del suo babbo. Quando Gianni era piccolo chiamava la radio lalla. E il babbo serio: -Non si dice lalla, si dice aradio”.
Qualche anno dopo l’esperienza di animatore delle L.A.C., a fine anni settanta, ero entrato nei ruoli della scuola media; non prima, però, di avere letto, davanti a un preside di grande umanità e a due colleghi in veste di testimoni la formula solenne: “Giuro di essere fedele alla Repubblica, di osservare lealmente la Costituzione e le leggi dello Stato, di adempiere ai doveri del mio ufficio nell’interesse dell’Amministrazione per il pubblico bene”. Che affettazione!
I care. Mi interessa. Ma cosa interessa? Tutto. Mi interessa perché sono mosso dalla curiosità di sapere, di conoscere, di informarmi. Mi interessa perché guardo sempre verso l’altro uomo. Mi interessa perché non potrei vivere da solo, senza entrare in tutto ciò che è a dimensione d’uomo. Mi interessa perché amo pensare al plurale e, poi, non coabito con i sentimenti dell’invidia e della gelosia.
I care. Una volta, I care divenne epigrafe in un congresso di un partito della sinistra storica italiana. Ma nella scuola come nella politica, purtroppo, è ancora un sacrilegio “interessarsi”. Servono gli utili imbecilli, i servi sciocchi, quelli che alzano la mano, per manifestare il proprio consenso, solo quando è richiesto. Guai a prendere posizioni, a manifestare dissenso, a segnare una diversità. Bisogna marciare nell’anonimato, far diventare normale tutto ciò che è anormale.
Insieme a Lettera a una professoressa, Nino Pino mi aveva inculcato anche la curiosità per la lettura di Calvino, Gramsci, Pasolini. Che belle pagine quelle di Perché leggere i classici, Quaderni dal carcere, Scritti corsari!
In quel viaggio verso Barbiana mi erano passati davanti agli occhi tutti gli anni, tutti i giorni, tutti gli avvenimenti vissuti con Nino. Anche gli inevitabili momenti di incomprensione, velocemente superati. Avevo ripensato ai tanti pedagogisti di cui Nino sempre parlava: Freinet, Vygotskij, Piaget, La Porta, Visalberghi…
Cosa era rimasto?
Di ritorno da Barbiana, avevo telefonato a Nino. Gli avevo detto delle mie emozioni, dei miei sentimenti. Avevamo fatto una rimpatriata nei ricordi. Ma anche nelle illusioni, nelle speranze, nelle utopie. Quelle che ci avevano aiutato ad andare avanti, a credere nel cambiamento, ad investire sul futuro.
Nino morì nel 2001, trentaquattro anni dopo il priore di Barbiana. La scuola militante napoletana lo dimenticò in fretta. Nessuno si preoccupò di fargli dedicare un istituto, un plesso, un’aula. Solo l’IRRSAE della Campania gli dedicò la sala delle conferenze: A Nino Pino, educatore.
Di tempo ne è passato veramente tanto. Molte cose sono irrimediabilmente cambiate. La scuola, e non solo quella campana e napoletana, è ridotta molto male.
Nei giorni di arsura, mentale e stagionale, ho pensato e ripensato, mi sono fatto mille domande, si sono dato centomila risposte. Ogni tanto mi è sembrato di risentire la voce di Nino, quando argomentava, quando invitava a prendere una posizione, quando scandiva le parole misurandole nel significato, quando recitava poesie.
Quella stessa voce impostata, sonora, calda, in questo afoso pomeriggio di giugno, a 49 anni dalla morte di don Milani, mi è tornata nella sua sonorità e mi ha ripetuto quel brano dagli Scritti giovanili di Gramsci: “Odio gli indifferenti, perché mi dà noia il loro piagnisteo di eterni innocenti. Domando conto ad ognuno di essi come ha svolto il compito che la vita gli ha posto e gli pone quotidianamente, di ciò che ha fatto e specialmente di ciò che non ha fatto. E sento di poter essere inesorabile, di non dover sprecare la mia pietà, di non dover spartire con loro le mie lacrime…Vivo. Sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti”.