L’Anci ha proposto di differire, in Campania, l’apertura dell’anno scolastico di ben due settimane. Ciò significa che nei comuni della regione, diversamente da quanto si vuol fare intendere con gli smaglianti sorrisi televisivi dei big politici, c’è piena consapevolezza di non poter far fronte a una situazione di emergenza come quella causata dal coronavirus. Perché gli enti locali hanno le casse vuote e sono anche in forte ritardo sul reperimento di nuovi spazi, sulle modalità di trasporto degli scuolabus, sul funzionamento dei servizi-mensa. Le scuole, invece (e purtroppo), non sono complete negli organici (raddoppiati o rinforzati) del personale, sono in penuria di suppellettili e di aule e -secondo una prassi tutta italiana- sono stati individuate come strutture responsabili terminali di tutte le scelte difficili (insegnamento in presenza o da remoto, turni di entrata con ingressi diversificati, distanziamenti nelle classi, misurazione della febbre, allestimento dell’aula di primo soccorso covid etc). Spingendo, per il momento, in secondo piano questioni altrettanto delicate riguardanti l’inserimento degli alunni disabili, la preparazione dei piani di evacuazione (rischio terremoto e Vesuvio), l’organizzazione dei responsabili del primo soccorso, gli obblighi di attestazione dell’idoneità statica.
C’è qualcosa di più, però, che non fa ancora notizia, perché sono tutti troppo distratti a parlare dei banchi con le rotelle, delle mascherine e dei termoscanner; ma fra qualche giorno converrà, forse, riflettere e proporre soluzioni anche sui buchi nell’apprendimento/formazione di un’intera generazione insieme all’annosa piaga della dispersione scolastica. Ambedue i problemi interconnessi e con esiti, a breve e medio termine, catastrofici per il futuro del Paese.
Allora, al di là dei megafoni benevoli del ministero della P.I., bisogna avere il coraggio di raccontare con sincerità quanto si è verificato nell’anno scolastico del covid-19. Nessuno era attrezzato a sostenere l’onda d’urto di una pandemia simile; meno che mai il mondo della scuola. Il ricorso alla didattica a distanza, decantato come vero toccasana in tempi di emergenza, è stato un fallimento totale. Lo è stato per i motivi noti a tutti. Ma lo è stato maggiormente perché, già da alcuni anni, è in corso la pratica del disimparare piuttosto che quella dell’imparare. Ma non l’esperienza del disimparare (acquisita con la sapientia dell’età) auspicata da Roland Barthes, quella in cui si lascia lavorare “l’imprevedibile rimaneggiamento che l’oblio impone alla sedimentazione delle cognizioni, delle culture, delle credenze che abbiamo attraversato”. Il disimparare della scuola contemporanea è, invece, inteso nella dismissione dell’abitudine ad imparare. Che è molto diverso dal “perdere la memoria di ciò che si è imparato”. Ed è forse proprio la società che, oggi, chiede alla scuola di insegnare a disimparare. Qual è, infatti, l’auspicio della maggioranza delle famiglie per i propri figli? Che conquistino il pezzo di carta! L’attestazione, cioè, di un titolo di studio acquisto in qualsiasi modo: nella scuola pubblica o privata, con raccomandazioni, con pietismi o con l’esibizione di meriti extrascolastici (impegni sportivi, di associazionismo, di volontariato).
E così gli studenti dell’anno del covid-19 finiscono col rappresentare il grosso dell’esercito di coloro che intenzionalmente disimparano, trovando, in più, degli interlocutori iperprotettivi ed impauriti come i familiari e gli insegnanti. Ovviamente, il risultato di un tale basso livello di istruzione –costituito da quel tasso (invece) altissimo di analfabeti di ritorno, pari al 30% degli italiani alfabetizzati!- produce e produrrà costi sociali altissimi, rinvenibili nei mancati processi (individuali e collettivi) di partecipazione democratica, nel costante stato di insicurezza, nella difficoltà a saper cogliere le opportunità del mercato del lavoro, nel ricorso “salvifico” alle cattedrali della criminalità.
Altro grande problema –aggravato dalla pandemia in corso- è (e resterà) specie nel Mezzogiorno quello della dispersione scolastica. L’Italia già ha un brutto primato, che la colloca tra gli ultimi posti in Europa tra i paesi con la piaga degli abbandoni scolatici: quarto paese nella Ue (14%), subito dopo Malta (18,6%), Spagna (18,3%) e Romania (18,1%). Percentuali con numeri rossi come in Campania (19,1%) e nelle sue province: Avellino (7,5%), Benevento (11,2%), Caserta (17,9%), Napoli (22,1%), Salerno (15,3%). Negli ultimi venti anni nella scuola italiana 3 milioni e mezzo di ragazzi hanno abbandonato le aule e non hanno completato il ciclo di studi; per il loro insuccesso lo Stato ha sborsato, inutilmente, 55 miliardi di euro!
Oggi, in piena ripresa dei casi di coronavirus, purtroppo molti genitori cominciano a pensare che -in una situazione così caotica, con grandi pericoli di contagi e con manifesta imperizia dei responsabili delle istituzioni- è meglio tenere a casa i propri figli. Per cui, dopo anni di tentativi e di progetti tesi ad arginare la dispersione e l’abbandono, ci si troverà a dover fronteggiare anche il fenomeno di un allontanamento degli studenti dalle aule intenzionalmente voluto, sicuramente sofferto, ma per il momento rassicurante.
Chi spenderà una parola contro? Chi si preoccuperà dei costi sostenuti dallo Stato? Chi si assumerà la responsabilità di dare risposte ad un Paese, che si troverà a dover arginare una crisi socio-economica epocale e a dover creare opportunità lavorative, pur in presenza di un aumento esponenziale delle diseguaglianze?
Succederà, forse, che la dispersione scolastica nell’anno post-covid-19 raggiungerà cifre da capogiro. Aumenteranno sia gli evasori totali (coloro che intenzionalmente evadono l’obbligo scolastico), sia i dropout (coloro che non completano il corso di studio). Si aggiungerà, così, emarginazione ad emarginazione, povertà culturale a povertà culturale. E, forse, la Campania –in particolar modo- si troverà a dover combattere un altro triste primato. Che si aggiungerà agli altri non altrettanto lusinghieri con il 69,1 % dei giovani nella fascia d’età 6-17 anni che non ha mai letto un libro, il 77,9% che non è mai stato a teatro ed il 69,3% che non ha mai varcato la soglia di museo o visitato una mostra.
Ed ancora una volta sarà compito della Politica -la politiché technè– progettare e difendere il futuro. Ben sapendo, però, che tutti, in quanto cittadini di questo Stato, fanno (facciamo) politica; soprattutto quelli che dichiarano (dichiariamo) di non volerla fare, perché è una cosa sporca! Ma, ricordava don Milani, a che serve avere le mani pulite se si tengono in tasca?