Da settembre ad oggi, a causa della pandemia in atto, le scuole continuano ad essere chiuse. E sono oltre quaranta giorni. Nel passato anno scolastico invece le aule rimasero vuote ben oltre gli ultimi cento giorni di lezioni. A conti fatti, tra allerte meteo, possibili impedimenti personali (di chi insegna e di chi impara), qualche sciopero e la normale chiusura estiva, gli alunni non mettono piede in una scuola da circa nove mesi. Duecentosettanta giorni! Che costituiscono un buco enorme, un vuoto pauroso, incolmabile nel percorso formativo di un soggetto in età di apprendimento. Perché in così tanti giorni sono state bruciate una media di oltre seicento ore di lezione pro capite; senza considerare, naturalmente, le mancate occasioni di socializzazione, le pratiche didattiche di inclusione per gli alunni difficili, la mancata fruizione di un ben-essere quale quello costituito dal poter crescere in una comunità educante.
In tale drammatica situazione, sarebbe stato soprattutto responsabilità e compito della politica impegnarsi a trovare strade alternative, evitando, nel contempo, inutili megafoni per una costosa innovazione di suppellettili, dimostrando di capire che alla Dad non si arriva senza formazione del personale, senza copertura di una rete funzionante al cento per cento e, soprattutto, senza la consapevolezza che l’insegnamento in presenza (empatico, diretto, controllabile) non può essere sostituito da uno a distanza (freddo, emergenziale, incontrollabile). La politica avrebbe dovuto avere anche il coraggio (e l’intelligenza) di promuovere la rivisitazione dei programmi, di creare condizioni per ben spiegare che i segmenti di saperi non costituiscono il sapere. Avrebbe dovuto avere, la politica, anche la necessità e la capacità di tendere alla revisione –per esempio- delle superate abitudini di un insegnamento in funzione unicamente eurocentrica, aprendo lo studio della storia come della letteratura, delle scienze come dell’antropologia ad una ricostruzione della vicenda umana a 360 gradi. Tutte azioni necessariamente supportate da una grande e ovvia rivisitazione del concetto di formazione, in quanto la formazione del personale resta la condizione necessaria perché qualcosa nella scuola possa cambiare in chiave non gattopardesca. La formazione, infatti, è un requisito che non può passare solo attraverso la logica dei premi ai più bravi (con criteri di selezione rigidamente ispirati a una politica servile e clientelare) o di una progressione stipendiale, annunciata a ogni cambio di governo e di ministro e mai, però, veramente attuata. Ed ancora la formazione resta l’unica condizione utile per produrre qualità, per poter rendere la scuola competitiva (cum petere = cercare insieme) nella soluzione di problemi complessi.
Solo così, forse, sarebbe stato possibile poter rispondere alle sfide totali della società ed a quelle micidiali del covid, cercando di educare ai grandi modelli, di superare i muri delle conflittualità pseudo etniche, dei circuiti poveri e delle arroganze localistiche. E, forse, sarebbe stato anche possibile non morire più di sud e di nord; come, forse, sarebbe stato auspicabile non morire ancora di scuola (di mal di scuola e di male che la scuola procura, specie se non la si frequenta).
Sarebbe stato come far scoccare un nuovo tempo: un tempo di speranza; un tempo certo di diritti e di doveri, con meno enunciazioni di principi e più volani di civiltà.
Ma quanti guasti ha procurato e sta procurando la politica cialtrona degli ultimi anni. E quanti guasti ha procurato e sta procurando l’indifferenza degli addetti ai lavori, degli stessi fruitori dei servizi, di una società votata all’egoismo (“non sono fatti che mi riguardano; non posso certo io, da solo, cambiare il mondo; la vita è breve, voglio godermela senza troppi pensieri, in fondo la scuola a cosa serve?”).
Tra pochi anni (non più di dieci), chi sopravvivrà, potrà veramente capire cosa avrà prodotto la politica dei tagli alla scuola, senza più essere tacciato di appartenenze ideologiche ormai superate. Avrà, chi sopravvivrà, la possibilità di verificare se i soldi risparmiati per la scuola saranno stati un investimento, se i docenti mandati in pensione a 67 anni avranno avuto la forza e l’entusiasmo necessario per affrontare una generazione distante anni luce dalla propria, se gli alunni italiani avranno acquisito competenze – oltre quelle richieste da standard europei e internazionali- spendibili in contesti fortemente tecnologizzati, transnazionali, poliglotti.
Facendo un rapido calcolo, a mo’ di esempio, un bambino che ha iniziato a frequentare la scuola nell’era modello-Gelmini sarà giunto o starà per giungere al termine di un percorso di studio lungo 10/13 anni con circa 1.287 ore in meno rispetto a un suo coetaneo dell’epoca pre-Gelmini. A tale vuoto bisognerà aggiungere le mancate ore di lezione a causa, oggi, della pandemia ed ieri, per la continua sciatteria e (spesso) incompetenza di chi ha occupato l’ambita poltrona di Viale Trastevere. Una tragedia!
In tale scenario, dovranno essere le famiglie (la maggioranza delle quali è in gravi difficoltà finanziarie) o dovrà essere la società (con la continua perdita dei posti di lavoro, la recessione, l’inoccupazione, la mala sanità, le zone arancioni e quelle rosse, i maneggi politici, gli intrighi di poteri) a compensare le ore in meno offerte dalla scuola?
Domande oziose. In fondo, l’Italia, popolo di poeti, santi e navigatori, troverà sempre il modo, purtroppo, per affidarsi a giullari di corte, a santi di cartone e a capitani di ventura senza macchia (!) e senza paura.
E, per questo, mica serve la scuola!