La sanguinosa lite, avvenuta nel cuore antico della città di Napoli e conclusasi fortunatamente senza esiti letali, tra due compagni di una scuola media, ha rimesso di nuovo al centro dell’attenzione la difficile convivenza tra le istituzioni statali (la stessa scuola, il comune, la procura) e le famiglie. Nei commenti, infatti, seguiti alla rissa tra Matteo e Gabriele, si è sempre cercata una responsabilità – o almeno una carenza- nelle regole da far osservare a scuola (una madre, intervistata al TG3, invocava come rimedio anche la perquisizione!), nella poco assidua presenza dei vigili o nel ruolo poco incisivo dei servizi sociali. Nessuno -o quasi nessuno- ha inteso, però, parlare della responsabilità e del ruolo delle famiglie.
Uno dei nodi più complesso del fare scuola è, oggi, proprio il rapporto con le famiglie, che incide fortemente sul percorso educativo. In virtù, infatti, della stessa evoluzione che ha subito il nucleo familiare (scomposizione del modello tradizionale di clan, calo della natalità e dei matrimoni, aumento delle separazioni, dei divorzi e di altre forme di convivenza), si è sempre più di fronte a figure genitoriali amiche, paritetiche e senza troppa autorevolezza. Per cui, spesso, la scuola si trova a dover gestire un’alleanza bambini/adolescenti/giovani-famiglia, che mal si concilia con la richiesta di collaborazione/aiuto proveniente dall’istituzione educativa. È fin troppo evidente l’impatto negativo della scuola con quei genitori, che, coltivando una relazione amicale e conviviale con i propri figli, accettano e difendono comportamenti adolescenzialo-giovanili, spesso, improntati ad una sorta di vero lassismo e di tangibile superficialità. Così, quando i genitori degli alunni sono convocati dalla scuola, si assiste, quasi sempre, solamente a una difesa strenua di un “blocco familiare”, che sta per essere messo in discussione da un “blocco estraneo”. È, proprio quest’ultimo, il momento peggiore di una comunità, che, nello sforzo di legittimarsi “educante”, si rivela, invece, nel pieno di una crisi. Una crisi che, evidenzia il mutato senso (in negativo) del rapporto insegnamento-apprendimento. Talvolta, poi, si registrano situazioni problematiche (e ricorrenti) in cui o il genitore è convinto di essere alla pari (se non in sostituzione!) con il corpo docente o lo stesso corpo docente ritiene addirittura di dovere e potere assumere un ruolo di supplenza nei confronti di deboli legami familiari.
Nel primo caso, l’attento genitore si lamenta di come si insegna la matematica o l’inglese o la storia; non si ritrova nella valutazione assegnata al proprio figlio, che “ieri, quando l’ho interrogato io, sapeva tutto e bene”; non è d’accordo sulla scelta didattica, che, magari, ha privilegiato il metodo induttivo a scapito di quello deduttivo o viceversa. Non a caso una recente ricerca nazionale ha rivelato che il 61% dei genitori è portato a giustificare la distrazione in classe dei propri figli, in quanto “le lezioni sono poco stimolanti”; il 39%, invece, è solito attribuire lo scarso profitto degli studenti a metodologie poco efficaci, piuttosto che a un evidente disinteresse degli amati rampolli.
È anche vero che, talvolta, è la stessa scuola a scegliere un ruolo di supplenza al posto della famiglia, ed allora si assiste all’esaltazione del curricolo esterno a danno di quello interno, con grave danno per la didattica: “è vero, non si applica molto, però, le condizioni familiari non gli consentono…”.
Non sono fatti che avvengono per caso. La loro genesi, motivabile ma non giustificabile, può essere riassunta in tre o quattro punti: 1)la cancellazione del prestigio riconosciuto alle istituzioni formative; 2)il fallimento delle forme di partecipazione promulgate con gli Organi Collegiali; 3)la percezione che l’investimento nell’istruzione non paga né a breve né a medio né a lungo termine; 4)la propensione delle giovani generazioni (ben tollerata dalla famiglia e dalla società) ad impegnarsi in percorsi facili e brevi
È opportuno, quindi, garantire un’inversione di tendenza, per mezzo della quale, la genitorialità –nello stretto significato di “far nascere continuamente, far venire alla luce in modo permanente”- possa riconquistare un nuovo spazio di responsabilità, mentre la scuola possa ridiventare il luogo di promozione della crescita dei cittadini.
Se, invece, tutto resta fermo o tutto si cambia per finta (Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi), allora si è di fronte a un vero allarme rosso. I rapporti OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico), purtroppo, segnano che i livelli di formazione dei giovani italiani sono collocati agli ultimi posti tra i paesi europei. La scuola italiana è molto lontana da quegli stessi obiettivi che il Consiglio europeo di Lisbona aveva stabilito che si raggiungessero entro il 2010 (miglioramento della qualità e dell’efficacia dei servizi e dell’offerta di istruzione e formazione; agevolazione dell’accesso a tutti i sistemi formativi; apertura al mondo esterno dei sistemi di istruzione e formazione). Anzi, a volerla dire tutta, tra il 2000 e il 2006, c’è stato addirittura un peggioramento per quanto riguarda le elementari capacità di lettura, mentre la dispersione e l’insuccesso si sono mantenuti a livelli alti (il 20% dei giovani non consegue un diploma e incide pesantemente sui costi sociali ed economici).
Però, i ragazzi, ogni mattina, con l’apertura dei cancelli, continuano ad esibire i loro abiti firmati, le scarpe Hogan, i jeans strippatissimi ma di marca, i motorini (per i più grandi), l’ipod e i cellulari touch. La scuola diventa quasi una passerella, spesso, i genitori ne godono e, nel loro patto d’alleanza, corrono, allertati da un sms, a prelevare i figli “che a scuola si annoiano”. Quella, anzi, dei cellulari a scuola è, purtroppo, una battaglia persa da tempo: sono i genitori a darli a figli per chiamarli ed essere chiamati, in ogni momento, anche in classe. Se la scuola si azzarda a vietarne l’uso, fioccano, però, minacce, diffide, denunce per abuso di potere e per appropriazione indebita!
Un tempo, gli alunni della scuola di Barbiana sostenevano che la scuola era pur sempre meglio della merda; gli alunni di oggi sostengono, invece, le ragioni opposte. Ci sarà pure un motivo!
Forse, bisognerebbe perciò ripensare –fra i tanti altri ruoli- l’importante compito educativo svolto dalla famiglia. Perché non basta e non serve più denunciare i sintomi di una crisi grave, visibile, irreversibile. Come non basta e non serve più assumere quella sorta di autocompiacimento della cultura della crisi, che riconosce e “giustifica” le mille emergenze della società. Altrimenti, nel caso della sbandierata “emergenza educativa”, si correrà il rischio di far calare pesantemente il sipario sugli allarmanti dati degli analisti e degli educatori, letti solo come notizie di stampa o assunti, nella coscienza collettiva, come uno ed ulteriore elemento dei tanti fallimenti dell’istruzione e della formazione.