Ora bisogna che si guardi al domani con più realismo e meno retorica. È vero: niente sarà più come prima ma ciò che ci aspetta non potrà essere una riedizione del passato (l’attuale presente) mediato semplicemente dall’uso di strumenti informatici. Soprattutto nel caso della scuola; e bisogna farsene una ragione. Perché soprattutto la scuola è ferma ad uno spartiacque, staziona nel punto di cesura tra l’era pre-covid e quella post-covid. Rimandando ad altro momento -ma solo per facilità d’esposizione- un’arena di confronto su quali azioni mettere in atto per tentare di colmare il vuoto formativo generato da quasi un biennio di lontananza dai banchi, sembra opportuno aprire un confronto sulla scuola che verrà (o meglio, che dovrà essere).
È stato ampiamente dimostrato dalla pratica e dai risultati sul campo che la didattica a distanza –specie se intesa come trasposizione sic et simpliciter di quella tradizionale- non ha senso, non serve, non dà stimoli. Anzi, il ricorso ad una sua utilizzazione in modo continuativo e meccanicamente ripetitivo, mortifica la relazione educativa, accentua il disinteresse di chi è, in simile situazione, costretto ad apprendere (ma anche di chi è, in altrettanto simile situazione, costretto ad insegnare), annulla l’empatia (rinforzando anzi una forma di dispatia), implementa il fenomeno della dispersione (sia di capitale umano che di risorse investite).
Tra la scuola pre-covid e quella post-covid c’è, quindi, un abisso. Importante, però, è intendere questo abisso nel significato estensivo di divario, di distanza e non in quello geografico di precipizio o di baratro. Perché il precipizio spinge a percepire la visione di una grande e smisurata profondità mentre il divario dà l’idea di una differenza esistente ma colmabile. Per cui necessita attrezzarsi per tempo, con molto sudore e molta fatica, per accingersi a superare il dislivello creato dall’evento inaspettato della pandemia in corso. E senza ulteriori giri di parole, al fine di imprimere tempestivamente [per l’anno scolastico 2021/’22] una svolta ad una produttiva relazione apprendimento-insegnamento, non si possono/devono non immaginare percorsi educazionali e didattici innovativi e sperimentali.
Fare scuola nel tempo post-covid richiede, coraggiosamente, che si metta mano allo stravolgimento di un’organizzazione scolastica ormai superata dalla storia. A partire dal funzionamento della classe –composta e ricomposta in presenza, da remoto, per lavorare con la dad o con la ddi- che, non costituendo più essa un gruppo equieterogeneo, si trasforma naturalmente in un gruppo di apprendimento, omogeneo solo per età, con ingressi ed uscite, in tempi fissati dai responsabili degli interventi didattici, resi necessari da bisogni individuali (curiosità conoscitive) e/o indotti (approfondimenti consigliati dai docenti). Quindi, il docente/animatore del gruppo in apprendimento su un contenuto ampio, delega ciascun componente ad investigare su un segmento di percorso di un sapere unitario; per poterlo, successivamente, rendere fruibile agli altri partecipanti.
Il ruolo del docente, a questo punto, richiede necessariamente una rivisitazione ed un impiego in doppia funzione (intercambiabile): un docente esperto nell’area disciplinare ed un tutor responsabile (ed esperto) del cammino formativo. Una simile governance richiede il superamento della suddivisione oraria giornaliera delle lezioni a vantaggio, piuttosto, di un monte ore dedicato –ciascuno per le proprie competenze e responsabilità- a un progetto didattico contestualizzato, verificato su doppi parametri (del singolo e del gruppo), valutato sulla crescita personale di ciascuno, impegnato a conseguire traguardi di conoscenza e di prodotto.
A questo punto, le modalità (e le tecniche) di valutazione devono essere automaticamente riviste e rinnovate. Non si può, infatti, pensare di valutare –né con voto né con giudizio- alcun soggetto in apprendimento, se non è egli stesso protagonista del percorso di conoscenza, se non gode degli stessi quadri di riferimento (formali) dei suoi compagni di studio, se non dimostra di saper traslare in altri contesti (non formali ed informali) le competenze acquisite. Perché, in fin dei conti, come il docente ha scelto intenzionalmente di insegnare (a meno che la scelta non sia dipesa da un ripiego professionale o dalla ricerca di una seconda attività lavorativa) anche il discente può apprendere solo con intenzionalità (convincimento personale, familiare, per ambizione, per imitazione o per antagonismo), in assenza della quale ogni sforzo diventa inutile!
Nella proiezione della scuola post-covid non c’è più spazio per i libri di testo con apparati didattici. Il libro di testo (e non) continua, però, a rappresentare la sintesi ordinata di una conoscenza specifica; le sue pagine sono, così, utilizzabili globalmente, saltuariamente, dall’inizio alla fine o dalla fine all’inizio o, anche, per capitoli/paragrafi di interesse. Diventa soprattutto necessario e prezioso, però, lo spazio costituito da altri libri, quelli che contengono spunti per l’estensione della mente, schemi riepilogativi, interpretazioni mai definitive, insinuazioni di dubbi e necessità di revisione di certezze acquisite (Modello di vestito/ che si allunga e si allarga/ all’infinito./ Non perde bottoni,/ non ragna sui calzoni,/ esente da macchie e da strappi,/ s’indossa all’asilo/ e cresce un po’ per anno/ senza perdere il filo [G. Rodari] ).