Verrà, poi, il giorno in cui la luce, a lungo intravista in fondo al tunnel, tornerà a splendere per tutti. Sarà il momento di guardarsi attorno e valutare chi e cosa ci accompagnerà nel prosieguo del cammino. Ci saranno macerie, posti di lavoro in meno, resti di speranza, rimorsi, errori, meriti, colpe, piccoli progetti avviati insieme ad altri abortiti. Ci saranno anche tanti uomini invecchiati precocemente, insieme ad altri avanzati nella conta degli anni ma privati di molto cibo per la mente. E quest’ultimo quadro sarà quello più deprimente e pericoloso per una effettiva ripresa di una comunità, di un paese, di una società di eguali.
Spingendo lo sguardo in prospettiva, infatti, il danno maggiore e duraturo del coronavirus sarà il vuoto formativo scaturito da una scuola malfunzionante, per giustificata paura da contagio, per ingiustificabile inefficienza organizzativa, per mancanza di una visione innovativa ed anticipatoria della didattica.
Non si può, però, continuare a vivere sorretti dall’antica convinzione (la nemesi storica) che vuole le colpe dei padri pagate dai figli. Di emuli di eroi greci –che sbagliano, provano vergogna, non pagano né hanno sensi di colpa- non c’è più spazio nella contemporaneità. Né, tantomeno, è tempo di tenere in vita il principio della responsabilità in base al quale il colpevole ed i suoi discendenti dovranno essere segnati per sempre da un iniziale errore. Anzi, se le colpe dei padri non possono più ricadere sui figli, i padri devono pur far qualcosa per cancellare la teoria della predestinazione!
Ed allora la costruzione del post-covid è un’occasione da non lasciarsi sfuggire, per agire diversamente dal solito, per non piangersi più addosso, per pensare alla scuola, in termini meno nozionistici e di governance e più come generatrice (non unica) di cultura. Perché il motore di ogni trasformazione (di ogni rivoluzione) è la cultura. Non può esserci alcuna ripartenza del Paese e di ogni sperduta sua contrada senza l’ausilio della cultura. Fare, quindi, cultura diventa un impegno di tutti, una scommessa da vincere ad ogni costo, una visione progressista del mondo, un progetto di vita.
I dati Eurostat pre-covid (2018) non inducono certo all’ottimismo. In Italia la dispersione scolastica si attesta sul 14,5% degli alunni in età di obbligo; il dato è, in realtà, il risultato di una forbice tra l’11% del Nord ed il 18% del Sud. Numeri che posizionano l’Italia al 4° posto di una classifica, tra i paesi europei, tutta al negativo. Forse perché, secondo l’OCSE, l’Italia spende solo il 3,6% (a fronte della spesa media degli altri Paesi ferma sul 4,5%) del suo Pil per l’istruzione dalla scuola primaria a quella universitaria; forse perché, aggiunge Eurostat, in termini di percentuale sul totale della spesa pubblica l’Italia impegna solo il 7,9% per l’istruzione mentre gli altri Paesi arrivano al 10,2% (media UE). A ciò si aggiunga, poi, che, tra i Paesi OCSE, l’Italia è al 1° posto per quota di giovani tra i 15 ed i 24 anni, che non hanno né arte né parte (quelli tra i 24 ed i 28 anni sono il doppio degli altri paesi, sfiorano addirittura il 28,4% della popolazione), cioè non studiano, non lavorano, non seguono corsi di formazione; sono i cosiddetti Neet (not in education, employment or training), non fanno niente dalla mattina alla sera, vegetano, infoltiscono la schiera degli “sdraiati” di Michele Serra.
Non si può, quindi, continuare a vivere così; bisogna impegnarsi a immaginare un nuovo inizio per gli apprendimenti formali (istituzionali) fortemente supportati da quelli non formali (dei gruppi, delle associazioni di categoria, degli istituti di cultura). Perché il ricorso alla didattica da remoto è un palliativo (anche mal riuscito), che non risolve lo stato di crisi in cui versa la didattica. Per insegnare è necessario essere padroni del sapere disciplinare ma bisogna anche saperlo trasmettere quel sapere! E, soprattutto, bisogna che chi insegna possa e sappia cogliere lo stato d’animo di chi apprende, possa guardare negli occhi il suo interlocutore, mettersi nei suoi panni (empatia) e poter così creare una relazione proficua tra chi intenzionalmente ha deciso di imparare e chi intenzionalmente ha scelto di insegnare.
Ed allora bisogna dare una mano al fare cultura, in tutti i modi. Che non è pensare ad un aiuto dato in modo assistenziale alla scuola in emergenza; è, invece, un ricorrere a nuove forme di sussidio, di supporto all’insegnamento tradizionale; è uno sperimentare ulteriori percorsi di conoscenza, di insegnamento non formale a beneficio degli studenti dell’era post-covid.
Bisogna –per fare ciò- che gli intellettuali, gli studiosi, i responsabili scientifici disseminati nelle varie istituzioni e sul territorio, i politici, i sindacalisti, i pensionati in buona salute diano il loro contributo. Bisogna che gli archivi, le biblioteche, i conventi, le chiese, le sedi di partito, i cinema, i teatri mettano a disposizione le loro sedi insieme ai preziosi ed immensi patrimoni di cui sono custodi e portatori. Per farla più breve, bisogna che ci sia una chiamata alle armi di tutte le istituzioni culturali, per stimolare nuove e diverse forme di saperi, acquisite attraverso lo studio, la ricerca, il sacrificio ma anche attraverso le testimonianze, le emozioni ed il piacere di apprendere dal vivo.