Antonino (Nino, come lo chiamavano tutti) Pino era nato a Roma, il 22 agosto 1928, da Nicolò e Marianna Nicita. Primogenito di tre fratelli fu un bambino precoce, intelligente e di grande curiosità, tanto da fare l’ingresso alla scuola elementare a solo quattro anni, da anticipatario (come si leggerebbe oggi nelle circolari ministeriali). A sedici anni, poi, frequentò l’ultima classe del liceo classico ed a diciassette varcò le aule universitarie della “Federico II” di Napoli, dove conseguì, nel 1952, la laurea in lettere discutendo una tesi in Filologia Romanza su “Un poeta rumeno: Tudor Arghezi” (il relatore della tesi portava il prestigioso nome di Salvatore Battaglia). Nello stesso anno della laurea vinse anche una borsa di studio per un corso di perfezionamento di un mese nella Repubblica Argentina. Quindi, si dedicò all’insegnamento nelle scuole pubbliche per una decina d’anni, fin quando non ebbe l’incarico di presidenza nelle scuole medie di Massa Lubrense (1961/1964) e di Acerra (1964/65). Poi, vincitore di concorso a preside, dall’1 ottobre 1968, fu assegnato alla S. M. S. di Vietri di Potenza e, quindi, alla S.M.S.“Giovanni Lombardi” di Napoli, alle Fontanelle, nel cuore del disagio e del degrado.
Nino Pino amava il suo lavoro più di se stesso. Leggeva di tutto, aveva uno sguardo a 360°, aveva mille interessi, prediligeva i classici (italiani e stranieri), la politica, le delizie della vita. Era un autentico regalo di Dio. Aveva sete di sapere, specialmente di sapere specialistico legato alla sua professione di preside. Era sempre attento alle iniziative ed ai confronti nazionali ed internazionali sui problemi della didattica e della scuola in generale. E tutti questi interessi, uniti alla sua immensa cultura, lo avevano fatto diventare, immediatamente, un punto di riferimento per chiunque lo avesse incontrato; un maestro irrinunciabile e carismatico per ogni aspirante insegnante.
Nel 1975, Nino Pino era stato nominato coordinatore del corso di abilitazione all’insegnamento delle materie letterarie nella scuola media da me frequentato. Ricordo che il primo giorno si era presentato con un borsone pieno di libri. Quindi, dopo aver detto brevemente di sé, aveva tirato fuori i libri, uno a uno, aveva cominciato a parlare a noi, giovani laureati in lettere in attesa di insegnamento, di ognuno di quei volumi, chiedendoci se mai ne avessimo letti qualcuno e cosa ne pensassimo: Vittoria Ronchey Figlioli miei, marxisti immaginari, Ivan Illich Descolarizzare la società, Albino Bernardini Un anno a Pietralata, Umberto Eco Apocalittici e integrati…Poi, estraendo gli ultimi due libri, aveva detto: “Questi sono gli unici libri risparmiati al rogo del ’68: sono il Libro rosso dei pensieri di Mao Tse Tung e Lettera a una professoressa di don Lorenzo Milani”. Successivamente Nino ci aveva parlato più volte di don Milani e della scuola di Barbiana e non aveva mai omesso di sottolineare con la sua accattivante dizione: “Pensate, sulla porta di quella scuola c’era scritto: I care (mi interessa, mi riguarda)”.
Nino fu un grande innovatore, un creativo e, per queste sue virtù, fu anche un pioniere della didattica. Quando la scuola di base –sebbene dell’obbligo- era ancora selettiva, il preside Pino –preside di frontiera- guardava alla necessità che essa fosse veramente dell’obbligo, che si ponesse il problema dei ragazzi che perdeva per strada, che arginasse il fenomeno della dissipazione della didattica ed individuasse strumenti per farvi fronte. Egli, perciò, si era ispirato subito a don Milani; aveva pensato al necessario battesimo di una scuola nuova, non nella facciata ma nel modo di proporre gli insegnamenti. Ed aveva immaginato un docente-facilitatore dell’apprendimento, un professionista all’avanguardia, scevro da ogni pastoia burocratica e da qualsiasi modello standardizzato. “Il vero educatore del nostro tempo deve essere dotato di una cultura che superi i limiti della disciplina che egli insegna; di apertura dinamica a tutte le sollecitazioni della vita moderna; di sensibilità ai problemi giovanili; di capacità di inserirsi nella problematica sociale e culturale del nostro tempo; di spirito di iniziativa, capacità creative e organizzative, disposizione ottimistica verso la vita, equilibrio emotivo, senso di responsabilità”.
Soffiava, in quegli anni, un vento nuovo nel paese; era iniziato, infatti, un costruttivo dialogo riformatore tra la Dc ed il Psi. E la scuola ne usciva senz’altro bene dalla politica intrapresa dal primo centro-sinistra. Dopo un accenno sul doposcuola -non obbligatorio- nella scuola media, contenuto nella L. 31-12- 1961, n. 1859, per cause più che altro di natura economico-organizzative, si cominciava (grazie anche alle riflessioni indotte dalle proteste sessantottine) a guardare alla scuola dell’obbligo come a un’occasione politico-culturale offerta alla società, dalla quale saliva una prima richiesta di impianto “a tempo pieno”. Si respirava dappertutto l’aria di un tumultuoso cambiamento; si levava da ogni parte una richiesta di partecipazione ai processi di trasformazione della società, si affermava una definizione del nuovo ruolo assunto dall’istituzione familiare insieme ad un bisogno naturale di tuffarsi nell’emergente tecnologia con il coinvolgimento attivo di tutte le energie e le intelligenze. Alla luce di queste novità – i pilastri della nuova scuola, come li aveva definiti Visalberghi- il preside Pino (che mai –a pare mio, conoscendolo abbastanza bene- avrebbe avuto piacere a farsi pomposamente chiamare Dirigente Scolastico!) annotava: “La scuola finalmente si riconosce punto di incontro di tutte le esperienze culturali del ragazzo (e non distributrice unica di cultura). Se la scuola media è –come deve essere- scuola di massa, deve liquidare gli elementi discriminatori e selettivi che ancora la caratterizzano, affrancandosi dall’azione costrittiva e repressiva che ancora esercita”.
Ma nei collegi dei docenti c’era ancora tanta diffidenza. Nelle plenarie delle scuole si chiedeva quando l’alunno avrebbe veramente studiato? Nei pomeriggi passati a scuola avrebbe fatto i compiti assegnati per casa? E gli allievi bravi non si sarebbero annoiati, non avrebbero perso (più che guadagnato) occasioni d’apprendimento nei tempi destinati al recupero degli allievi meno bravi? Domande legittime alle quali il preside Pino rispondeva, liberando la sua creatività didattica, offrendo piste di facile (e suggestiva) percorrenza: “A questo punto è facilmente intuibile la funzione del docente nell’attività pomeridiana. La sua collaborazione col ragazzo consiste nel guidarlo nel lavoro in cui è impegnato, nel fargli riconoscere il metodo più corretto e più efficace per la lettura di un documento, la consultazione di un manuale, la decifrazione di un simbolo o di una formula, la ricerca del modulo razionale che sottende un esercizio, l’attenta osservazione dei diversi linguaggi attraverso cui si esprime la trasmissione delle cognizioni, la scelta degli strumenti più idonei per condurre i diversi tipi di lavoro: in una parola aiutarlo a fare le sue conquiste”. Un socialista riformatore come Pino non poteva non guardare alla scuola come al volano di ogni trasformazione sociale. Scuola e società dovevano necessariamente avanzare in parallelo, perché l’una era la derivante dell’altra. E perciò, specie nella prospettiva di rinascita del Mezzogiorno, l’istruzione costituiva il vero problema da risolvere. Perché l’istruzione era (ed è) sinonimo di libertà, di progresso, di cultura, di conquista sociale. D’altra parte la politica socialista degli anni Sessanta del secolo scorso era ispirata proprio a fare assumere all’istruzione un posto di preminenza nella coscienza popolare. Non a caso il Psi esibiva il trofeo della conquista della scuola media unica; e, sempre non a caso, l’impegno socialista al governo in materia di politica scolastica voleva significare che lo Stato si stava impegnando in un investimento altamente produttivo per la società. Bisognava, allora, che cambiassero i termini del discorso; che la palingenesi avvenisse in modo totale e non apparente; che la crisi della scuola non fosse più e solo ritenuta quella delle strutture. Bisognava, in altre parole, che i fenomeni negativi caratterizzanti l’eterna questione della scuola, specie nel Mezzogiorno, cominciassero ad essere eliminati. “Tali fenomeni sono: il ristagno, la ripetenza e la cosiddetta mortalità scolastica; il bassissimo tasso di licenziabilità nella scuola dell’obbligo; le aberranti motivazioni del successo o dell’insuccesso nello studio, le quali sono spesso determinati non da attitudini e capacità personali, ma da fattori completamente estranei ad esse (ad esempio, la localizzazione e le dimensioni della scuola frequentata); l’errata scelta degli indirizzi, la quale diviene una remora gravissima agli effetti del successivo inserimento nella collettività e della giusta, rapida e piena utilizzazione nel processo produttivo del paese ”.
Per la prima volta in quegli anni si cominciava a parlare dell’educazione come un problema complesso e globale. E, forse, si cominciavano a rifiutare le soluzioni episodiche tese, magari, a risolvere piccoli problemi giuridici, strutturali (specie nelle estreme periferie del paese) ed organizzativi a vantaggio di elementi che riguardavano, prioritariamente, la preparazione dei docenti, la rivisitazione del loro stato giuridico, la continuità didattica, l’organizzazione democratica delle strutture periferiche, i programmi ed i sussidi. Tutti termini e valori nuovi nella liturgia scolastica, che era chiamata ad abbandonare la pratica della superficialità, dell’assistenzialismo, del clientelismo, dell’improvvisazione e del fatalismo. Sarebbe riuscito il Mezzogiorno a sostenere questa sfida a cui era chiamato? “Esistono nel Sud sufficienti energie, che sono all’altezza del non facile compito cui tra breve sarà chiamata la scuola militante e non solo essa; esistono, invero, coscienze vigili, aperte, uomini che pensano e che maturano dentro di sé i problemi; esiste –che è ancora più importante- un’attitudine crescente, in questi ultimi tempi, a costituirsi in organismi associativi e a lavorare in équipe: lo dimostra lo spontaneo fiorire di gruppi culturali e di centri specializzati per l’indagine, lo studio e la ricerca”.
L’intendimento di Nino Pino, prima che didattico, era politico. Egli teneva fortemente ad affermare la conquista dell’obbligo scolastico, il principio che la scuola (specie la scuola media), in quanto scuola dell’obbligo, richiedesse la partecipazione di ogni cittadino alla vita associativa (la scuola come comunità educante) che ne scaturiva ed il superamento di quella visione tradizionale, selettiva, che continuava a riproporre tra i banchi le medesime differenze della società, gli stessi rigurgiti di casta. “La scuola non può sottrarsi al compito di educare alla partecipazione di tutti i suoi componenti: docenti, alunni, famiglie […] Partecipazione significa capacità delle persone di essere parte attiva nelle istituzioni a cui appartengono e di non lasciare che altri decida per loro, cioè attuare un sistema di relazioni in base al quale tutti i componenti possano acquisire un responsabile potere di decisione”.
Il preside Pino puntava, quindi, l’attenzione sulla riforma della scuola dell’obbligo.
Una strada per realizzarla –non certamente l’unica- era per Nino quella della formazione e dell’aggiornamento. Ma la formazione e l’aggiornamento richiamavano in campo l’ingresso della ricerca. “Metodologia della ricerca e revisione del ruolo dell’insegnante diventano perciò i cardini di una proposta di lavoro alternativa, che –ponendo in una diversa relazione il conoscere e l’operare- tenda a liquidare, superandolo, uno degli obiettivi-base della scuola tradizionale: quello che, alla resa dei conti, considera l’esito verbalizzato del conoscere più valido che non l’esito operativo del conoscere. Conseguenza immediata di queste premesse è che qualsiasi progetto di attività di aggiornamento non può non avere come punti riferimento: a) le profonde modificazioni in atto nella struttura della società contemporanea; b) le trasformazioni indotte nell’istituzione scolastiche e i conseguenti problemi inerenti al ruolo sociale della funzione docente ”.
Dall’anno scolastico 1973/74 Nino Pino fu preside alla scuola media statale “Giovanni Lombardi” di Napoli, alle Fontanelle. In quella sede, prima di condurre la sperimentazione di integrazione scolastica (1971) per tutte le classi funzionanti, il preside Pino aveva iniziato l’esperimento di integrazione sociale: aveva preso un bel contingente di alunni proveniente dal facoltoso quartiere Vomero e lo aveva inserito tra i ragazzi del deprivato quartiere Sanità. Presso la stessa scuola, poi, dall’anno 1974/75, erano funzionanti classi sperimentali per lavoratori studenti (150 ore), che, a partire dal 1979/80 sarebbero diventati, addirittura quattro moduli (16 classi), di cui due presso la sede delle Fontanelle, uno con particolare sperimentazione presso l’Ospedale Psichiatrico Provinciale, e un altro presso il Centro di Medicina Sociale di Giugliano. Una vera avanguardia rivoluzionaria. Nella “sua” scuola, infatti, Nino aveva avuto la grande capacità di aver creato un vero gruppo di lavoro in cui si confrontavano e producevano materiali didattici docenti ed animatori delle L.A.C. (Libere Attività Complementari), docenti cosiddetti “del mattino” e docenti “del doposcuola” e “della sera”. Il preside socialista aveva costituito il Consiglio dei Genitori e il Comitato Scuola-Famiglia, del quale facevano parte anche i Consiglieri di Quartiere. Ai consigli di classe, poi, partecipavano anche le famiglie degli alunni.
Nino Pino concluse la sua carriera all’IRRSAE della Campania. Egli credeva fortemente negli IRRSAE e ne immaginava una struttura dinamica con un Consiglio Direttivo senza l’aureola dell’onnipotenza nel campo scientifico-culturale, con un segretario generale da un profilo meno indeterminato nel suo ruolo di indirizzo e di rapporti col personale tecnico-scientifico, quest’ultimo, a sua volta, subito svalutato per la temporaneità del suo comando e della sua funzione.
Spesso, Nino mi diceva che avremmo dovuto scrivere un libro insieme, perché avremmo dovuto innanzitutto divertirci. Nacquero, sicuramente, anche da sue sollecitazioni alcune mie ricerche ed alcune mie pubblicazioni. Quando, poco prima che se ne andasse per sempre, gli proposi di preparare un corso di latino di base, per una casa editrice con la quale collaboravo, fu felicissimo. Si diede subito da fare, progettò, scrisse ed in men che non si dica consegnò un bel lavoro[1]. In fondo con quel libro di latino egli continuava il gioco degli opposti che aveva giocato tutta una vita: rigore e divertimento, complessità e seduzione, incanto e disincanto. “Questo libro raccoglie anche –e racconta- le diverse manifestazioni di quella vitalità: il pulsare di quella lingua nelle allusioni, nelle invettive, negli aneddoti che quotidianamente si narrano, nelle etimologie e nelle citazioni di cui è infiorato, nelle sentenze, giocose e sapienti, che si tramandano da una generazione all’altra”. Insomma, un libro alla Nino Pino, con la vivisezione delle parole, col gusto dell’aneddoto, con l’occhio sornione e lo sguardo profondo. Proprio una continua malia! Ed anche in quel suo lavoro sulla lingua latina non fu taciuta la sua fede politica, i valori che la sostenevano, la solidarietà che la contraddistinguevano (un tempo!): “E’ dal latino medioevale che giunge fino a noi una delle parole che esprimono molto calore e molta solidarietà: compagno. Non senza ragione questa parola è stata largamente adottata da movimenti politici, con l’intento di indicare una stretta coesione tra i militanti. La parola d’origine è “cumpanio”, composta da “cum” (con) e “panis” (pane). Significa, è facile intendere, che mangia lo stesso pane”. E, quindi, per continuare ad insegnare divertendo (ma, soprattutto, divertendosi), in quel libro di latino, comparvero i male dicta (male [cattive] parole), il latino di Chitarrella (De règulis ludendi ac solvendi in Mediatorem et Tresseptem [Rèvole de jocare e pavare lo Mediatore e lo Tressette]), quello dei clerici vagantes (RA RA RA ES ET IN RAM RAM RAM I I O CUR TUA TE BE BIS BIA ABIT[2]) e quello dei versi della canzone di Celentano “Il ragazzo della via Gluck” (Puer viae Gluckeae): “Questa è la storia di uno di noi, anche lui nato per caso in via Gluck” (Haec est narratio cuisdam nostri qui via Gluckea forte est natus).
In chiusura di volume ricordo che inserì, quindi, un’altra gemma: raccolse da un sito internet [3] “parole italiane moderne che non corrispondono a parole del latino classico, perché riguardano oggetti, situazioni e fenomeni che non erano ipotizzabili nel tempo in cui il latino classico fiorì”. E scovò, fior da fiore, annotando nel suo stile brioso, abbronzarsi (sole infuscari), cemento armato (lithocolla ferro durata), kamikaze (voluntarius sui interemptor), minoranza etnica (minor pars allophila), supermercato (pantopolium), tangente (questuosa largitio).
Nel marzo del 1976 Nino era diventato consulente dell’Amministrazione Provinciale di Napoli per la direzione del C.P.E. (Centro per i Problemi dell’Educazione) e, per tale incarico, dirigeva il Consiglio di Direzione Pedagogico-Didattica. Allora, si respirava, nel capoluogo partenopeo, una nuova aria politica e di impegno culturale; l’anno prima c’era stata “l’avanzata delle sinistre”, che avevano conquistato i vertici delle istituzioni. Maurizio Valenzi era stato eletto sindaco di Napoli; alla guida della Provincia, dopo anni di presidenze democristiane, c’era il socialista Franco Iacono. La direzione di Nino coincise con un periodo di massima floridezza della presenza culturale e professionale dell’organo istituzionale provinciale. Il preside di frontiera, infatti, era riuscito a raccogliere intorno a sé un nugolo di docenti, che si incontravano, discutevano, proponevano, sperimentavano, producevano materiali didattici. Il punto di incontro era, appunto, il C.P.E. le cui sale erano ingombrate da mastodontiche fotocopiatrici, da sofisticati strumenti audiovisivi, dalla presenza di tanti docenti che si ispiravano –sotto la guida di Nino- alla scuola di don Milani, il prete di Barbiana.
Nino Pino, poi, da autentico militante di sinistra, era un iscritto alla CGIL-Scuola. Nel sindacato e per il sindacato aveva fatto battaglie e condotto ricerche. Negli ultimi anni, in prossimità dell’età pensionabile, più forte s’era mostrata la sua necessità di rendersi ancora utile alla conquista ed alla difesa di diritti in favore delle classi deboli. Così, senza mai perdere di vista i problemi della scuola, aveva cominciato a tendere lo sguardo verso l’àmbito dell’immigrazione e delle tematiche riguardanti il settore della terza età. L’immigrazione era legata fortemente alla scuola, perché “l’avvenimento più importante e significativo del nostro tempo è costituito dallo spostamento imponente di individui e di popoli da una parte all’altra del pianeta. Quel che va sottolineato sono le motivazioni di questo straordinario fenomeno: innanzitutto esso costituisce un modo per avviare una redistribuzione delle risorse, fino ad oggi concentrate nelle mani di una minoranza di gruppi nazionali; e, poi, ancora un modo per determinare un ridimensionamento delle culture”.
Nino, quando nel 1993, per raggiunti limiti di età, lasciò il suo lavoro di ricercatore all’Irrsae, si trasferì, armi e bagagli, alla presidenza dell’Auser Campania. Sembrava un ragazzino al primo impiego, tanto era l’entusiasmo che connotava la sua giornata nell’associazione di volontariato. Anzi, l’esperienza dell’Auser gli garantì la possibilità di restare nel campo dell’educazione –l’educazione permanente- e rivolgersi agli anziani con gli stessi strumenti, che aveva maneggiato per una vita: l’affabulazione della parola, la profondità del sapere, il fascino della conoscenza. Insomma, con una leggerezza unica, operò una vera rivoluzione nel campo del volontariato e nella tutela degli anziani, del terzo settore. “Senza di loro –quelli del terzo settore, del no profit, della solidarietà-, il patto sul lavoro sarebbe stato diverso…a loro ci si dovrà riferire come ad attori protagonisti tutte le volte che si disegneranno nuove politiche per l’occupazione e per il lavoro; in loro essenzialmente si accenderà il motore per la riforma dello stato sociale”.
Agli inizi degli anni novanta dello scorso secolo Nino Pino cominciò a parlare anche dell’Università della Terza Età. E nel 1996 nacque, così, per iniziativa dell’Auser Campania e dello SPI CGIL Campania, l’Ulten (Università Libera per Tutte le Età, associazione no profit, per la quale Nino coniò il motto “Sapere è bello, ricordare anche di più”.
Nino Pino fu tra i grandi animatori delle attività culturali dell’Istituto di Studi Carlo Pisacane, Centro di Ricerche e di Documentazione di Napoli, che ebbe la sua voce nel prestigioso bimestrale “Campania Documenti”. Per un periodo abbastanza lungo, infine,fu segretario della sezione Vomero-Arenella e componente del direttivo provinciale del partito socialista. Fu, anche in questa veste, quello che si definisce un “vero socialista”, coerente, onesto, ricco di dignità, con lo sguardo alle masse lavoratrici ed alle classi meno abbienti, convinto che solo la cultura – e quindi la scuola- potesse avviare un serio processo di trasformazione nella società. Fu molto pasoliniano e più di uno, fuori e dentro del partito socialista, gli mosse l’accusa di giacobinismo. In effetti, Nino ed il suo “Pisacane” furono un vero tormento per l’apparato del partito; i suoi (i loro) richiami ad un rigore di comportamenti, ad una evidente sensibilità per le questioni sociali, ad un rifiuto di una politica assimilabile a quella laurina e gavianea, lo (li) faceva vivere come una sorta di temibile Cassandra.
Nino Pino chiuse la sua vita terrena in una notte del mese di novembre del 2001, a settantatre anni. Gli stetti vicino fino a quando calarono la bara in un’anonima fossa del cimitero di Poggioreale. Con la morte nel cuore, cercai qualche pensiero, qualche immagine da dedicargli, qualcosa che gli potesse far piacere. Mi venne in mente che, spesso, nei nostri incontri, citava il film “Balla coi lupi”. Allora, gli dissi: –Ciao, tenente Dunbar; starai sempre dalla parte degli indiani. Ed io con te; come mi hai insegnato. Immaginai che Nino, nel ricambiarmi il saluto, avesse avuto piacere di quel mio riferimento e mi sorridesse.
[1] A. Pino, i latini, Tullio Pironti Editore, Napoli, 2001.
[2] terRA – es et in – terRAM- I bis- O super BE- Cur super BIS- TUA super BIA- TE super ABIT (Terra sei e in terra andrai. O superbo, perché ti insuperbisci? La tua superbia ti sopraffarà).
[3] www. pesaro.com