Non ho difficoltà a confessare che l’amavo. Anche se non si trattava di un amore preceduto da corteggiamento. Era stato un amore, scoppiato tra le pagine di Francesca e Nunziata, un classico colpo di fulmine. Adoravo la sua prosa visiva (l’anno imbronciato, la montagna allindata e sorniona, il muto discorrere, le speranze gemmate dei puri e dei diseredati, i crani azzurrognoli rasati a zizza ‘e pacchiana). Adoravo la sua capacità di entrare nella Storia con le piccole storie (Garibaldi [Bardo, Mo vene Calibardo] ed i suoi uomini con la camicia color rosso, perché bagnata nel sangue dei morti; il sogno di unire l’Italia per il quale noi abbiamo pagato molto più degli altri; la perla della corona affidata al perfido Liborio Romano; un nuovo ordine di potere a Napoli, in seguito al quale a contare erano diventati Michele ‘o Chiazziere, ‘o Schiavetto, ‘o Perzinaro, Tore ‘e Crescienzo…). Adoravo il sapore e l’odore delle cose della vita donata ai suoi personaggi (nonna Trofimena lasciata sola, nel suo letto di morte, per preparasi all’incontro con l’angelo; quel gattone strabico che si chiamava Guaglione ed anche il cavallo Lampetiello o il cane lupo Flic; Francesca che succhiava una pupatella ‘e zucchero; Salvatore impacciato, che sapeva leggere poco e scrivere ancora meno). Adoravo il ricordo di riti che avevano segnato anche la mia infanzia (lavarsi la faccia con le rose il giorno dell’Ascensione; il petrolio –‘o scisto– per combattere i pidocchi; l’aroma canforato delle foglie di eucalipto per i suffumigi; i peperoni imbottiti; il mazzetto di peperoncini sotto il materasso nella camera matrimoniale). Andrea Camilleri dice che il narratore crea una terra dove poter far stare i suoi personaggi. Maria Orsini Natale non ne aveva avuto bisogno; in quella terra c’era nata e i suoi personaggi l’avevano generata, cullata, svezzata, cresciuta: crisce bella, fatte grossa, ricca e santa fin’ ‘a fossa!
L’avevo letto, perciò, quel libro –Francesca e Nunziata– tutto d’un fiato. Forse, erano bastate due o tre notti per ingoiare quelle trecentottantaquattro pagine nell’edizione di Avagliano. Ho ancora nelle orecchie la litania dei tanti saputelli: – Avagliano? Editore giovane, meridionale, di provincia…il libro non è di successo. E, invece, il successo di un libro lo decreta il lettore; l’editore è importante che ci sia ma non deve essere necessariamente un editore importante. Un libro può andare avanti anche con il passa parola e riuscire, così (cosa non sempre facile), a entrare nel privato dei lettori. Come accadde appunto a Francesca e Nunziata.
2) Una mattina, poi, fui raggiunto da una telefonata. Maria Orsini Natale –che non conoscevo di persona- mi chiedeva se potevamo incontrarci tra i vicoli del Casamale, sul far della sera, quando sarebbero state accese le lucerne, per la consueta ricorrenza della festa quadriennale. Era il mese di agosto del 1998. Andai incontro a una bella signora dal fascino antico: giunonica, ingioiellata, con un cappello a falde larghe ed un fiore (o un fascetto di piccoli fiori di frumento? Non ricordo bene) sul bavero di un fresco ed elegante vestito. Fu come se ci fossimo conosciuti da sempre. Stabilimmo subito di darci del tu. Lei era un’amabile conversatrice, curiosa, attenta, fascinosa. Le dissi che mi sembrava una cantastorie. Rispose che raccontava da cantastorie, perché veniva dal mondo del cerchio magico, quello intorno al braciere, il mondo dei cunti. Si appassionò alla magia delle lucerne e volle sapere, per filo e per segno, tutto quanto io ero in grado di dirle –in proposito- sull’origine pagana (Adone, Cerere, la dea Salus) e su quella tramandata dalla Chiesa (la Madonna della Neve, il papa Liborio), sulle leggende, sulla simbologia delle strutture lignee (i cerchi, i triangoli, i rombi) e sulle interpretazioni della festa (rito di ringraziamento, rito di morte, rito di vita) fornite da studiosi come Roberto De Simone o Paolo Apolito. Si fermò più volte davanti alle rappresentazioni agresti in cui zampillava l’acqua e lì dove nell’acqua guazzava qualche pulcino. Facemmo anche riferimento alle antiche raffigurazioni del dio Priapo accompagnato da oche e da galline. Quindi, lei ricordò che nel museo della vicina Capua una Diana Tifatina (VI secolo a.C.) troneggiava su un cavallo con un’oca tra le zampe. In fondo Maria Orsini Natale andava sempre alla ricerca del passaggio, della trasformazione avvenuta con una nuova cultura, con le nuove acquisizioni, col fluire del tempo. E nei suoi libri lei raccontava anche di “un tempo” in cui ciascuno si portava nel mondo i santi che aveva conosciuto da bambino, quelli che aveva visto nelle chiese. Perché, per ogni uomo accade che ci sono alcuni santi e madonne, che sono più santi e madonne degli altri. Non per caso, infatti, sulla costiera amalfitana di Maria c’era un santo della sua fanciullezza, S. Espedito, l’anacoreta, il legionario spagnolo, che si era fatto eremita sui monti Lattari. Ed, ancora, davanti alla statua di Hera Argiva col melograno in mano, a Maria era venuto naturale associare l’effigie della dea pagana a quella della Madonna del granato, simbolo –quest’ultimo frutto- dell’abbondanza e delle grazie elargite dalla Vergine.
Tra i vicoli del Casamale, stipati da una marea di gente alla ricerca di una comune identità popolare, con negli occhi il luccichio di infinite fiammelle, Maria dette voce ad alcuni suoi fantasmi dell’infanzia. Uno di questi si chiamava Teresella-Teresinella, che veniva dalla campagna di Somma Vesuviana. “Iervolino Teresa era contadina, ma anche materassaia e stiratrice” dal seno potente, con la scura gonna lunga a coprirle un corpo massiccio, tanto da farne riconoscere a un ammirato Amedeo Maiuri le fattezze di una Mater matuta[1]!
Visitammo il cuore della festa in compagnia di Giovanni Coffarelli, il cantatore vesuviano dei canti a figliola e di quelli alla potatora. Giovanni, col suo slang sommese-vesuviano-italiano, era un fiume in pieno di aneddoti, storie, usanze di campagna. Invano cercavo di frenarlo. Maria era attenta e si divertiva anche molto. “Lascialo dire; i vesuviani vivono il tempo in modo diverso. Un’ora da noi dura molto più che da altri e sappiamo far festa alla vita per la sua precarietà. Ma anche per la felicità di vivere in questi posti, per l’allegria di chi vive in bilico tra bellezza –nonostante il degrado- e la magia del clima…Ho vissuto molto al nord e molto in un paese del nord Europa. E quando mi hanno chiamato maccheronì mi è dispiaciuto. Allora con il mio “Francesca e Nunziata” ho detto: va bene, maccheronì, e allora? Abbiamo fatto la pasta e l’abbiamo fatta mangiare a tutto il mondo. E quando mi deridevano per il dialetto, ho sempre detto che il nostro dialetto era un’altra lingua; noi parliamo latino, greco. Abbiamo sedimentato tante culture….”[2].
3) Dopo quella sera alla festa delle lucerne ci dicemmo che ci saremmo sentiti a breve. E lo facemmo spesso, telefonicamente, parlando di pagine di letteratura, di comuni amici, di Napoli e di Torre Annunziata (lei), di Somma Vesuviana (io).
L’anno successivo alla festa era il 1999 e ricorreva il bicentenario della Rivoluzione del 1799. All’avvenimento storico avevo dedicato un libro[3], che era occasione per parlare di una tappa fondamentale sul percorso di acquisizione dei diritti, della democrazia, della partecipazione, della legalità. Ricordo di aver fatto un interessante giro di presentazioni e sempre mi avevano accompagnato testimoni
di vaglia. Fui invitato anche dall’Associazione Culturale “L’Angolo” di Torre Annunziata[4] ed, allora, chiesi a due autentici oplontini di essermi padrini: Michele Del Gaudio e Maria Orsini Natale. Un giudice e una scrittrice, con lo stesso amore per il vero, mi fecero l’onore di sedere al mio fianco. Maria era in una forma splendida, attenta ad ogni particolare, quasi meticolosa, ed era come sempre elegantissima. Una foto me la restituisce seduta vicino a me, mentre sorseggia un bevanda, chiusa in un mantello rosso, con un cappello a tinta e gli immancabili grandi occhiali con lenti fumé. Con grande autorevolezza e competenza sezionò il libro, parlò della sua struttura e dei suoi personaggi; con sentita amarezza si soffermò, poi, sul capitolo riguardante i lazzari, che segnano il sentimento di delusione e di sofferenza di un popolo per una rivoluzione mancata[5]. Concluse, quindi, il suo intervento con una spassosa quanto ironica declamazione di una canzone urlata a squarciagola dai sanfedisti: è venuto lu papa santo, c’ha purtato li cannuncine/ p’ammazzà li giacubine./ E teccote ccà, teccote ccà,/ cauce ‘nfaccia alla libertà[6]. In fondo, in tutte le sue opere non mancava mai di riportare versi di canzoni o strambotti (oro e diamante tene lu Sultano/ ma io tengo ‘trezze toie dint’a sti mane…. Io nun so’ ‘na puverella/ cu’ ‘na tela ‘ sacco pe’ vunnella,/ guardiane ‘e tridece gallinelle/ Io so’ figlia ‘e prencepe,/ nepote ‘e sette imperatore./ Tengo ‘na vesta/ ca arreto tene ‘a Luna/ e annanze ‘o Sole).
4) Passò qualche anno da quel marzo del 1999; ma i contatti con Maria non si interruppero più. Accadde, poi, che all’Ulten[7] di Napoli, dove alternavo corsi di storia a quelli di letteratura, i miei affezionati amici-corsisti mi chiedessero di incontrare la Orsini. Mi interessai ben volentieri e Maria accettò l’invito. Era una sera di quasi estate; nonostante il caldo furono segnate due ore di intensa partecipazione. Siccome in quei giorni non si parlava d’altro che di Lina Wertmuller e di Sophia Loren, -rispettivamente regista ed interprete del film tratto dal romanzo di Maria Orsini Natale- fu giocoforza conversare quasi esclusivamente della pellicola girata per la televisione. “Porto nel cuore le terre del Mezzogiorno, molto sacrificate. In Francesca e Nunziata percorro un secolo con questa famiglia di pastai e, quindi, anche dell’unità d’Italia e del sacrificio del Meridione. L’Italia andava unita, era un sogno bellissimo, troppo importante, bisognava realizzarlo. Qualcuno doveva pagare e noi abbiamo pagato un poco più degli altri […]Il Mezzogiorno ha portato molto a questo regno che si creava: ha portato vestigia, statue, palazzi…; è stato un momento difficile perché eravamo terra di conquista; lo dico senza acredine. Ho dedicato il libro ai miei fratelli del nord, però tante cose vanno dette, perché bisogna che si dica la verità. Così, quando si parla con i nostri fratelli del nord, si abbia la dignità di riconoscere che siamo stati denigrati. E in Francesca e Nunziata c’è proprio un desiderio di riscatto, di rivalsa […] Perciò, non è un libro sulla pasta; è, forse, un libro di storia. Sullo sfondo passa un intero secolo; e che secolo! Le sue pagine parlano di umane creature che vivono il loro tempo, che è tempo di cambiamento, di rivoluzione industriale, di scioperi, di Rerum Novarum, di trasformazione dell’artigianato in industria, del passaggio dalla pasta fatta a mano ai primi marchingegni […] Il film per la televisione? Avrei detto tranquillamente di no al film ma non potevo più. È stato come dare via i propri figli. E dei figli si è molto gelosi ”[8].
L’incontro scivolò, poi, su altri piani. La grande disponibilità di Maria aveva creato un clima amichevole, per cui ognuno degli attempati corsisti si sciolse, si aprì, scherzò, sorseggiando una bibita fresca o addentando i taralli col pepe e la sugna. La scrittrice torrese mostrava di trovarsi bene e si divertiva molto. A un certo punto cominciò a giocare con le parole, a spiegare l’etimologia e il significato di alcune espressioni dialettali: “Na capa ‘e triciento? È la vecchia dicitura del censimento romano: caput sine censo. Antrasatte? È la derivazione di inter res acta. Ma come non sapete da dove viene la bella espressione napoletana ammartenate?… A Marte natus!”.
Il tempo volò. Prima di salutarci, le porsi una copia de La bambina dietro la porta e lei, con la sua grafia svolazzante, firmandosi, scrisse: “Il giorno è un 30 di maggio felice di un incontro con la Ulten di Napoli. E l’anno è il rotondo 2002. Per Ciro Raia amico mio e fratello in “storie”, storie nostre e care al nostro sentimento. E ora un grazie per questo bellissimo incontro”.
5) L’ultima volta che ho parlato con Maria Orsini Natale è stata martedì 23 marzo 2010. Ero a Bologna. Avevo da qualche mese pubblicato Il paese di Asso di bastone[9], un libro che raccontava storie nostre e care al nostro sentimento. Avevo telefonato al numero di casa di Maria; mi aveva risposto una voce di donna che non conoscevo. Prima disse che, forse, la signora Maria stava ancora riposando; poi, ripetendo ad alta voce il mio nome, aggiunse di attendere un momento, perché la signora stava per prendere la cornetta. Solo per un attimo, alla risposta, ebbi l’impressione che la mia amica Maria fosse affaticata. Ci scambiammo saluti e piccole informazioni sulle nostre cose di ogni giorno. Poi, le dissi che avevo pubblicato un libro di storie nostre e care al nostro sentimento e che mi avrebbe fatto piacere fargliene avere una copia. Con quella sua voce bella e pastosa – e mentre l’ascoltavo mi sembrava di vedere il suo volto luminoso, solare- mi disse:
- Che bella notizia mi hai dato
- Ti invio una copia
- Perché non me la porti tu? Mi fa piacere vederti
- Va bene. Sabato ci sei?
- Sì, ti aspetto.
- Mi ricordi l’indirizzo?
- Torre Annunziata; via Tagliamonte, 2.
- A sabato. Ciao
- Stammi bene.
Ci andai, il sabato 27 marzo in via Tagliamonte, a Torre Annunziata. Erano le undici del mattino e c’era il sole. Bussai al numero civico 2. Bussai più di una volta. Non mi aprì nessuno e nessuno rispose alla mia bussata. Anche il telefono restò muto. Non sapevo che Maria stesse male. Non me lo aveva detto nessuno; nemmeno lei, che con tanta dignità e tanto affetto mi aveva detto: vieni, ti aspetto.
Maria Orsini Natale morì l’11 novembre del 2010. La notizia della sua scomparsa mi giunse improvvisa e dolorosa. Pensai che si erano spenti per sempre i suoi occhi marini e vesuviani ed io avevo perso una preziosa sorella in storie. Mi piacque, perciò, immaginare che qualcuno, nel rito finale, avesse preparato per Maria un altare con fette di pane, sale nel mortaio ed acqua, i segni della grande madre, quelli ricevuti dalla natura. Mi piacque immaginare anche che a mezzanotte Maria fosse stata lasciata sola, con due sole candele accese, con le finestre aperte, in attesa che l’angelo – seguendo un percorso segnato da foglie di limone (un tappeto consolatorio)- fosse venuta a prenderla. Era l’addio sacro che sicuramente Maria desiderava: ora non si fa più. L’ho fatto per mia madre e per mia nipote, la figlia di mia sorella[10].
[1] Il racconto Teresella si trova in Maria Orsini Natale, La bambina dietro la porta, Avagliano, 2000.
[2] Registrazione a cura di C. Raia.
[3] Ciro Raia, Napoli 1799, Pironti, 1999.
[4] L’Associazione Culturale “L’Angolo” era in via Gino Alfani, 45. La presentazione si tenne venerdì 12 marzo 1999.
[5] Registrazione a cura di C. Raia
[6] Tratto da Francesco Mastriani, I Lazzari, ABE, Napoli, 1976.
[7] Università Libera per tutte le Età di Napoli e provincia.
[8] Conversazione a cura di C. Raia
[9] Ciro Raia, Il paese di Asso di bastone, Guida, 2010
[10] Conversazione con C. Raia