In margine alla ricorrenza del 73° anniversario delle Quattro Giornate di Napoli, che l’Assessorato alla Cultura della Città e l’Istituto Campano di Storia della Resistenza “Vera Lombardi” hanno voluto dedicare in massima parte al ricordo di Gaetano Arfè, mi vengono da fare alcune brevi considerazioni. E la necessità deriva dalla presenza nell’affollatissima Sala Capitolare di San Domenico Maggiore in cui Nino Daniele, Guido D’Agostino, Valdo Spini e Giorgio Benvenuto hanno dedicato commosse parole allo storico e politico napoletano, scomparso nel settembre del 2007. C’erano familiari, amici ed estimatori di Arfè,vecchi e nostalgici compagni socialisti, intellettuali e semplici cittadini; mancava, però, la “meglio gioventù”. Che affollava, invece, i tavolini dei bar della piazza prospiciente il luogo dell’evento.
Quell’assenza mi ha inquietato e preoccupato. Mi sono tornate alla mente le prime immagini del film di Veltroni –Quando c’era Berlinguer- in cui spaesati studenti davano sconcertanti quanto divertenti definizioni del leader comunista: ha a che vedere con la mafia?, no era un commissario, un francese, è conosciuto per aver fatto tante guerre, è un famosissimo scrittore, è un politico di estrema destra. Fino a quando, poi, una ragazza candidamente confessa: non lo so, non me lo hanno fatto studiare e, quindi, è colpa del sistema scolastico! Ecco, il punctum dolens è sempre quello: la scuola che, spesso, alla ricerca di ardite linee pseudo innovative di governance, rallenta, invece, sull’investimento didattico e sulla conseguente ricaduta culturale, sociale e politica.
Né sono da meno, come ovvio, i materiali didattici a disposizione della scuola. Basta sfogliare, infatti, un qualsiasi manuale, anche il più tecnologicamente avanzato, per scoprire che segmenti importanti di storia (che potrebbero apparire di natura locale e non di spessore nazionale ed internazionale) sono ridotti alla narrazione in poche righe se non completamente elusi. Così, per esempio, della rivoluzione napoletana del 1799 si rischia di perdere sempre più memoria (tranne qualche piccolo cenno nel paragrafo delle repubbliche giacobine) nonostante gli inenarrabili sacrifici di Gerardo Marotta, come si rischia di perdere il senso ed il ricordo di tanti altri importanti avvenimenti e personaggi.
Nel 2014, nella ricorrenza del 90° anniversario dell’assassinio di Giacomo Matteotti per mano fascista, feci una piccola indagine nel liceo che all’epoca dirigevo. Ragazzi, allora, cosa vi ricorda il nome di Matteotti? Le risposte furono più o meno simili a quelle date alla menzione del nome di Berlinguer. Era il frutto di una scuola ansimante, senz’altro troppo onusta di carichi burocratici e pratiche amministrative, poco interessata (ma dipende da una precisa volontà politica) a generare una reale trasformazione culturale. Perché, tutto sommato e fuori dai denti, la cultura (quella vera, autentica, sudata, faticata) fa paura, mette in moto sinapsi e non consente il trionfo di un sistema basato sui preoccupanti poli della mediacrazia e della mediocrazia. Con l’unico argine –che talvolta è proprio un vero baluardo- costituito dallo spirito di abnegazione e dall’alta professionalità di una stragrande maggioranza di una bistrattata classe docente.
Il giorno dell’intitolazione della piazzetta a Francesco De Martino al Vomero, il Presidente emerito della Corte Costituzionale Francesco Paolo Casavola disse: “continuiamo a dare nomi giusti alle strade e saremo tutti più umani”. Perché è necessario custodire la memoria di uomini, che sono stati grandi uomini e che hanno fatto grandi cose per gli altri e mai per se stessi.
Ho accompagnato la solitudine degli ultimi anni di Gaetano Arfè; ci sentivamo telefonicamente ogni giorno e gli facevo visita almeno un paio di volte a settimana. Ho raccolto moltissime sue testimonianze tra le volute di fumo delle sue sigarette e i cumuli di libri e giornali nella sua casa napoletana di via Biagio da Morcone. Le sue lucidissime analisi spaziavano dalla politica alla letteratura, dalla storia ai fatti di attualità. Pochi mesi prima che scomparisse (2007) gli chiesi di analizzare la disattenzione dei giovani alla storia e alla politica. Nella sua puntuale lezione mi rispose che “i giovani di oggi non hanno una rappresentanza politica. Sotto questo aspetto, usando una parola di origine francese, sono minorizzati, sono costretti, cioè, a rimanere minoranze, perché non hanno esperienze né modo di accumularle e di arricchirsene. Semplicemente perché non hanno culture a cui rifarsi”.
L’antidoto ad ogni male risiede, quindi, sempre e solo nella scuola. Non si può solo auspicare o semplicemente sognare una scuola più umana, più stimolante, più moderna, più energizzante. Bisogna pretendere che sia così e che garantisca ricadute culturali e politiche spendibili ed immediatamente verificabili. E, forse, così i giovani non saranno più minorizzati; e cominceranno ad affollare tutte le sale degli incontri sia che si tratti di discutere di Costituzione, di acqua bene pubblico o di difesa dell’ambiente. E, quando, si ricorderanno le Quattro Giornate di Napoli, potranno avere vasti riferimenti il ricordo di Arfè o, fra i tantissimi e meritevoli altri, quelli di Federico Zvab, di Maddalena Cerasuolo, di Antonino Tarsia in Curia o Filippo Illuminato.